L'idea di Antoci per sradicare le mafie dai terreni agricoli della Sicilia era semplice quanto rivoluzionaria: pretendere una certificazione antimafia firmata dalle Prefetture al posto delle “autocertificazioni”, da parte di di chi si candidava ogni anno a gestire ettari ed ettari di parchi e teneva lontani potenziali concorrenti con la sola fama del proprio nome - spesso legato a famiglie di mafia o di 'ndrangheta: il modo più sicuro per vincere i bandi e incamerare milioni di euro di fondi europei, senza restituire al territorio neanche un posto di lavoro o una miglioria.
Forse è un caso (ma forse no) che quando la Regione Calabria volle mutuare il protocollo di legalità e la cosa uscì sui giornali, i proiettili per Antoci abbian lasciato le lettere minatorie per finire nelle sue portiere blidate.
Forse la 'ndrangheta non ha gradito: in una notte del maggio 2016 un commando armato assaltò a fucilate l'auto sulla quale Antoci viaggiava con la sua scorta.
Spararono basso, per fortuna.
La strage fu evitata grazie alla carrozzeria, che resse all'urto dei pallettoni calibro 12, e al provvidenziale arrivo di una volante: la polizia affiancò la scorta nello scontro a fuoco, e gli attentatori fuggirono.
Dal settembre 2017, il protocollo Antoci è una legge dello Stato.
Abbiamo ricordato volentieri questa vicenda nella nostra Liguria, dove per decenni politici di ogni colore hanno negato una presenza mafiosa che ormai tutti sono stati costretti a riconoscere.
Dove chi si mette di traverso, se anche non viene ammazzato a pallettoni, viene eliminato economicamente e socialmente, in modo da non poter più nuocere.
E ancora troppi, qui da noi, sono i subappalti affidati a imprese lontane dalle white list delle Prefetture.