Cultura09 maggio 2020 14:36

Profumo di mamma

L’emergenza è ancora in corso. E io, non contenta di avere già abbastanza cose da fare, sogno di avere una rubrichetta. Di sabato. Mi capita prima il 25 aprile, poi il primo maggio, e ora… La Festa della Mamma!

Profumo di mamma

Decisamente, come la maggior parte delle donne, non sono molto furba! Ma anche questa volta devo almeno provare a dire qualcosa di sensato: è un tema importante, al di là della festa. Anzi, è il Tema per eccellenza. La mamma. Colei senza la quale nessuno sarebbe al mondo, colei che (ci) dà (al)la vita, che porta in grembo una creatura (o più d’una) per (nove) mesi, in generale, e dopo un più o meno lungo “travaglio”, partorisce. Con dolore. Con amore. Iniziamo con il sottolineare che se la Festa del papà è sempre il 19 marzo, San Giuseppe, la Festa della mamma invece cambia data ogni anno. O meglio, fino a non molti anni fa gli auguri alle mamme venivano fatti l’8 maggio, poi la data è stata cambiata nella seconda domenica di maggio, per permettere alle mamme che lavorano (in realtà le mamme lavorano tutte, sempre, ma questa è un’altra storia), di poter trascorrere il proprio giorno di festa con i figli. Nel maggio del 1870, negli Stati Uniti, un’attivista pacifista e promotrice dell’abolizione della schiavitù, Julia Ward Howe, propose l’istituzione del “Mother’s Day of Peace”. L’iniziativa non ottenne consensi, ma finalmente nel 1914 l’allora presidente Woodrow Wilson ufficializzò la giornata come espressione pubblica di amore e gratitudine per tutte le madri.

In Italia invece nasce a metà degli anni Cinquanta con il senatore e sindaco di Bordighera, Raul Zaccari. La proposta finì in Aula (cosa ci fosse da discutere non si capisce, o forse si capisce fin troppo!), e nonostante le contestazioni ben presto la festa si diffuse in tutta Italia. Se c’è un tema universale, che va al di là di qualsiasi stato, religione, credo politico, è proprio questo. Tant’è vero che ha ispirato da sempre scrittori, artisti, intellettuali. Non c’è qui lo spazio per ripercorrere gli innumerevoli tributi alla figura della madre nella letteratura, nell’arte, nella musica, nel cinema, e così via. Alcuni sono del resto scolpiti nella mente di ognuno, e ognuno di noi ama o odia le “madri” della storia a seconda del “tipo” di madre che ha avuto. A ben pensarci, tra l’altro, sono forse di più le madri crudeli, anaffettive, feroci (Medea le batte tutte) di quelle buone, o sufficientemente buone, come direbbe Winnicott. Scelgo solo due esempi, assolutamente arbitrari e antitetici. Penelope, madre di Telemaco e moglie di Ulisse, simbolo di fedeltà e amore incondizionato. E naturalmente Emma (non Bovary ma Rouault, questo il suo cognome prima di sposarsi), adultera, incapace di amare davvero la figlia, che alla fine abbandona al suo destino, scegliendo per il proprio la morte. Ecco, io che amo più di qualsiasi altro autore Gustave Flaubert, mi sono tanto interrogata sul “materno” di Emma… Molti critici hanno scritto che se Madame Bovary fosse stato concepito da una donna, Emma non sarebbe stata così insensibile nei confronti della sua bambina. Possibile, ma non ne sono sicura. Non ci sono forse madri incapaci di amare? E ancora di più, impossibilitate ad amare? Madri il cui vissuto di sofferenza e povertà è tale da impedire loro di occuparsi dei figli (non occuparsi non significa necessariamente non amare)? Stando alle cronache di ieri e di sempre, direi proprio di sì. Mi vengono in mente le parole di Séverine, già varie volte citata nei miei articoli. In uno scritto in difesa dell’aborto, nel 1890, scrive: «si dice che le donne abortiscono per piacere, per dare fastidio alla polizia; per fregare i magistrati! Ma il loro crimine, sempre che ce ne sia uno, è commesso tra le lacrime, nella disperazione, nella vergogna, e certamente preferirebbero non essere obbligate a farlo! Sono vittime, non colpevoli; le vittime di un’organizzazione sociale che, affamata di ripopolamento, incorona di rose le virtuose e scomunica le ragazze-madri; dice ai poveri “crescete, moltiplicatevi!”, lasciando morire di fame i loro numerosi figli! Finché nel mondo ci saranno dei bastardi e degli affamati, la bandiera di Malthus aleggerà su questo gregge d’amazzoni ribelli che, obbligate dalle vostre leggi a mantenere i loro seni privi di latte, hanno il diritto di conservare i loro fianchi infecondi».

Dura, lucida, onesta, Séverine. E attualissima. Penso a un’altra madre, non di finzione, che scelse purtroppo il suicidio. La poetessa Marina Cvetaeva, ridotta in totale povertà e isolamento dal regime staliniano. La figlia Ariadna Efron, costretta ai campi di lavoro a Mosca negli anni Trenta del Novecento, ne ha scritto parole commosse e commoventi, e la ricorda così:  

«Mia madre è molto strana. Mia madre non assomiglia affatto a una madre. È malinconica, svelta, ama la Poesia e la Musica. Scrive poesie. Si arrabbia e ama. Ha un cuore grande così».

Mentre era incinta di Ariadna, Marina scrisse:

«Ti aspetto con gioia come se tu fossi un intero paese e completamente nuovo. Ti aspetto, sul confine tra me e te».

Ho messo questa frase in apertura di un racconto, mai pubblicato finora, dedicato a mio figlio. Michele. Quindici anni compiuti tre mesi fa. Perché così ho sentito anch’io l’emozione dell’attesa, durata otto mesi (siamo sempre stati un po’ “prematuri” e “precipitosi”, io e lui!). E così sento anche ora il nostro, specialissimo, come tutti i rapporti madre-figlio/a (nel mio caso, unico e maschio…), legame. Ancora una volta in questo mio spazio scendo in campo, per forza! Essere madre è, banalmente ma sinceramente, la gioia e la responsabilità più grande della mia vita. Che mi fa capire anche le gioie e le fatiche della mia, di madre, specie con una figlia ribelle (difficile?) come sono sempre stata io. Non passa giorno in cui non ringrazi per l’esistenza di mio figlio e ancora di più perché è sano, ha la possibilità di studiare, di fare sport, di vivere in un luogo con tutti i confort. Gli ho insegnato tutto ciò che ho potuto, e continuo a farlo. Ho seguito, condiviso e incoraggiato da quanto è nato tutte le sue moltissime passioni e ho cercato di trasmettergli le mie. Lui ha avuto prima di tutte quella per le balene (sorrido perché quando è nato, sulla culla c’era il disegno di una balena!). Non avevo mai visto una balena da vicino, e grazie al suo interesse per questi splendidi animali lo avevo portato a fare un’escursione in Liguria, durante la quale abbiamo avuto la fortuna di incontrarne una. Non l’ho mai detto “pubblicamente”, lo faccio qui oggi, sperando che non mi legga... Quando ho scritto il mio testo teatrale dedicato a Camille Claudel (la cui chère maman l’ha lasciata marcire in manicomio senza farle una sola visita), ho inserito una frase che mi ha detto mio figlio a tre anni e mezzo. Girava per casa con la federa del mio cuscino in mano; gli chiesi il motivo (va bene, è un oggetto transizionale, lo so, ma io ero lì con lui!). Rispose: “perché profuma di mamma”. A quel punto gli chiesi: “e di cosa profuma la mamma”? Michele, senza pensarci troppo, disse: “la mamma profuma di luce”.

Non riesco ad ascoltare questa frase del monologo senza commuovermi ogni volta. Nessuno mi ha mai detto una cosa così… non trovo l’aggettivo, non è solo bella. È tutto. E ora che essere mamma di un adolescente, per me, significa ancora di più avere la responsabilità di spiegargli perché non può (ancora) uscire, perché deve indossare la mascherina, sempre, perché non può incontrare i suoi amici e giocare al suo amato tennis, quella frase mi rimbomba in testa come una speranza e un dovere. Riuscirò a essere ancora la luce, il faro, la guida, come le madri sono chiamate a essere almeno finché i figli sono sotto la loro tutela? Riuscirò a insegnargli il rispetto della vita e dunque della morte, e non solo le poesie di Baudelaire o un brano al pianoforte? Riuscirò a prendere le decisioni giuste, per lui e per gli altri, in un momento in cui non si sa più qual è la cosa giusta e qualsiasi scelta, come sempre del resto, può avere un peso decisivo e comporta rinunce, sacrifici, dolore?

Non lo so.

So che ci proverò, come ho sempre fatto, con tutto l’amore di cui sono capace. Un amore che, prima di essere madre, non sapevo potesse essere così grande, assoluto (incondizionato?). Forse ho insegnato qualcosa a mio figlio, spero. Ma sono sicura che lui abbia insegnato molto di più a me. Una poesia si può anche dimenticare (e non credo che gli succederà, comunque), il ricordo di giornate passate a fare tutto insieme potrà sfumare negli anni, chissà. Ma l’amore no. Quello resta per sempre.

E quindi oggi, personalmente non mi sento di dover essere festeggiata, ma sento di voler ringraziare la “sorte”, che mi ha permesso di crescere mio figlio senza doverlo mandare al nido il prima possibile, senza dover cercare affannosamente il modo per dargli da mangiare (non ci sono manicaretti, qui, ma non è così importante), e potendo insomma stargli sempre vicina (fin troppo, dice qualcuno? Non lo so, “chi non ama troppo non ama abbastanza”)…

E sento di voler ringraziare la creatura con cui litigo spesso furiosamente, che mi dice che sono noiosa, che scrivo cose inutili (!), e per la quale so di essere a volte ingombrante.

 Per me lui è la vita, l’amore

Punto.

 

A tutte le mamme, a tutti i figli... E, ça va sans dire, anche a mia madre:

buona Festa della Mamma.

 

Le prime impressioni non si cancellano e tu lo sai, mamma. Portiamo in noi il nostro passato; per tutta la vita puzziamo ancora di balia. Quando mi analizzo trovo in me, ancora vive [….], le mie fantasticherie di bambino nel giardino, accanto alla finestra dell’anfiteatro.

Gustave Flaubert

Chiara Pasetti

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