Cultura06 giugno 2020 15:19

Bambina in gamba

Un racconto per la rubrica di Chiara Pasetti

La stanza di consultazione di Sigmund Freud a Vienna (foto Edmund Engelman)

La stanza di consultazione di Sigmund Freud a Vienna (foto Edmund Engelman)

Siamo alla settima uscita della rubrica. Nonostante non mi sia mai interessata alla numerologia, vi sto scoprendo cose affascinanti e curiose. Per festeggiare come si deve l’uscita 7, numero che mi è sempre piaciuto, non scrivo niente! Un articolo su niente… Di cosa dovrei parlare, del resto? La app immuni? Per carità, ne ho lette di tutti i colori, rimando a un’altra volta. La scuola? Già detto e, nel mio piccolo, fatto abbastanza, non penso serva ribadire il mio pensiero (tra l’altro è appena stato approvato il decreto Scuola, meglio un “no comment” per ora). Ciò che sta succedendo in America? Non mi resta che piangere. La riapertura delle regioni, delle quali la mia e la mia amata Liguria sono tra quelle che si trovano ancora in una situazione per niente chiara e piuttosto problematica? Non mi resta che attendere. La giornata mondiale dell’Ambiente? Cosa posso dire se non che lo stiamo distruggendo, da anni? E quindi, eccezionalmente e solo per oggi, e non perché non sappia cosa scrivere (datemi un foglio – un pc – e vi scriverò il mondo!) ma proprio perché non vorrei ripetermi o esprimermi su situazioni ancora troppo tese e intricate, per la mia rubrica parlo, anzi lascio parlare, una bambina. O una ragazza, o forse una donna: non mi ha detto quanti anni ha… L’altro giorno ho ricevuto un racconto molto lungo per il quale mi si chiedeva un parere. A me? Che strana cosa. L’ho letto e riletto e non so cosa scrivere se non grazie per aver scelto di affidare e confidare a me questa storia. Non credo di essere la persona giusta per dare giudizi, li ho sempre temuti, spesso sofferti sia sugli altri che su di me e cerco di darne il meno possibile, se non sono strettamente necessari. Ritengo che il miglior parere che io possa fornire a questa persona, di cui conosco solo nome e cognome (il secondo per rispetto della sua privacy non lo dirò), sia lasciarle lo spazio della mia rubrica. Capirà da questo gesto che ho ritenuto bello, e forse vero, ciò che ha scritto. E non importa se non ci dice come finisce la storia, se cambia spesso il punto di vista e se ci sono passaggi oscuri. Per onestà devo dire che il racconto è più lungo rispetto a quanto troverete qui: ho dovuto necessariamente tagliare per motivi di spazio. È la sola modifica che mi sono permessa, magari pubblicheremo un’altra volta le altre parti. Tutto il resto che leggerete, compreso il titolo, sono di chi ha scritto e mi ha mandato questo testo: Anna.

Buona lettura

 

BAMBINA IN GAMBA

 

La prima immagine che ho di me è talmente indietro negli anni che a volte mi chiedo se sia davvero un ricordo e non una fantasia. Mi trovo sulla soglia di una stanza d’ospedale. Indosso un cappottino maschile nonostante il mio essere femmina, tanto femmina da desiderare già a pochi anni di vita vestitini rosa, gonne ampie e vaporose, nastri nei capelli, che nessuno mi ha mai comprato. Mi vestivano da maschio e mi obbligavano a tenere i capelli corti. Solo alla fine della scuola elementare ho potuto finalmente farli crescere come desideravo, lunghi lunghi, fino a metà schiena. In più all’epoca le cose non si sprecavano ed essendo l’ultima, la più giovane, di una serie di cugini, tutti maschi, che superava la decina, avevo ereditato i loro vestiti: scarpe, giubbotti, persino i grembiulini neri, senza il colletto di pizzo naturalmente. Il cappotto che avevo quel giorno era di mio cugino Donato. Marroncino, lungo fino ai polpacci, un po’ liso, brutto. Sono con mio padre, stiamo andando a trovare la mamma che ha appena dato alla luce mia sorella. Ero emozionata, questo lo ricordo bene, all’idea di conoscere la neonata che era uscita dalla pancia della mamma. Una pancia che avevo visto crescere per nove mesi fino a diventare enorme, ma di cui riuscivo appena a immaginare il contenuto. Una bimba simile a me o qualcosa di diverso, strano, estraneo? Non lo sapevo. Sapevo solo che si chiamava Giulia. E che non vedevo l’ora di riabbracciare la mamma.

La vedo, è sdraiata con molti cuscini dietro la testa, tiene tra le braccia mia sorella che succhia il latte dal suo seno destro (o sinistro? Non saprei dirlo).

Rimango immobile. Mio padre entra, si avvicina a lei, la bacia sulla bocca e aspetta che lo segua. Osservo il quadretto familiare, che da tre persone è diventato improvvisamente di quattro, e mi blocco. Non ho la forza di proseguire. Mi sento piccola piccola, una bimba di cinque anni che si guarda gli scarponcini usati, anche questi donati da Donato, e non riesce a trattenere le lacrime. Resto lì sulla porta senza avere il coraggio di muovere un passo e mi metto a piangere. Un pianto silenzioso, solitario, irrefrenabile. Dopo qualche istante mi decido ad entrare. La mia sorellina è avvolta in un abbraccio dolcissimo con la mia mamma, che ora è anche la sua. Mio padre avvicina una sedia al letto e mi dice di sedermi. Non ricordo assolutamente che cosa ci siamo dette io e la mamma.

Prima di salutarci estrae dal comodino di ferro un pacchetto con un fiocchetto rosa e me lo mette tra le mani. È un libro, il manuale di Candy Candy. Nella prima pagina c’è una dedica:

 

Per la mia bambina in gamba, con tanto amore,

Mamma

 

 

Non capisco cosa significhi bambina in gamba, capisco solo la parola amore. Piango più forte, non voglio tornare a casa ma l’orario di visita è terminato. Stringo il libro tra le mani. Dopo molti anni ancora mi chiedo cosa voglia dire “bambina in gamba”, e ancora la sola frase che resta è “con tanto amore”.

«Una parola ci libera di tutto il peso e il dolore della vita: quella parola è amore».

***

 

La bambina in gamba cresceva bene. Aveva occhi strani, tra il nocciola e il verde. Occhi da adulta, dicevano tutti. E un’intelligenza vivace. Era molto simpatica, faceva divertire moltissimo gli amici dei genitori inventando storie e recitandole, con tanto di costumi improvvisati. A scuola era la prima della classe, la tipica cocca della maestra, svolgeva sempre con impegno i compiti e prendeva ottimi voti. Con i coetanei era un po’ prepotente ma sapeva guadagnarsi la loro amicizia in virtù della forte personalità. Emanava un fascino ambiguo fatto di stravaganze infantili e atteggiamenti maturi.

A otto anni chiese in dono un diario segreto, con il lucchetto. Il papà la accontentò, sorpreso da una richiesta tanto semplice. Forse si aspettava un desiderio più femminile, una Barbie di quelle costosissime che andavano di moda all’epoca o una casa per le bambole. Volle solo un diario e iniziò a scrivere poesie e pensieri per tirare fuori il malessere di sentirsi strana, diversa dalle compagne sempre allegre. A quell’età i bambini sono sereni, lei no. Diceva ai genitori di provare “qualcosa”, qualcosa che non la faceva stare bene. A dodici anni passò, quando arrivarono le mestruazioni. Era l’estate di We are the world.

We are the world, we are the children, we are the once who make a brighter day, so let’s start giving…

***

 

Le mestruazioni sono state un evento che mi ha finalmente donato la consapevolezza, non usata e smessa come i vestiti dei cugini ma nuova, mia e solo mia, che nonostante mi definissero un maschiaccio, nonostante gli interessi giudicati non da bambina come le macchinine e i cartoni animati sui robot io ero, sono una femmina.

Nessun pensiero legato alla fertilità, quelli sarebbero arrivati dopo. Solo la rassicurante, esaltante conferma di essere uguale a tutte le ragazze della mia classe, a parte il fatto che il mio seno era molto più piccolo del loro. I compagni, crudeli come solo i preadolescenti possono essere senza volerlo, mi chiamavano tabula rasa.

Ero una bambina in gamba e una tabula rasa, che scriveva il suo diario segreto. Avevo un registratore che tenevo sempre in borsa, nel caso arrivasse improvvisamente l’ispirazione. Fissavo le idee mentre camminavo per andare a scuola o a danza e arrivata a casa ascoltavo ciò che avevo registrato e buttavo giù tutto in forma scomposta nel diario. Nel frattempo era giunta l’epoca del liceo e io continuavo a sentirmi fuori posto, anche se fingevo che andasse tutto bene. Sapevo che c’era altro al di là dei compiti e delle amiche con cui andare a mangiare il gelato. Dentro di me cresceva l’ansia del nuovo, dell’ignoto. E l’ansia in generale.

***

It’s a hard lifeTo be true lovers together, to love and live forever in each others hearts… Aveva appiccicato sul suo armadio una frase di non so chi:

«Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale».

Era strana. Non era come le sue coetanee. Non si vestiva come loro, non parlava come loro. Studiava, leggeva, mi raccontava i libri che la appassionavano, scriveva racconti, e poco altro. Aveva una vita tutta interiore e io percepivo, nonostante dicesse di essere innamorata di me, che in quel suo mondo popolato di autori morti e di sogni non sarei mai entrato del tutto.

Aveva quasi diciotto anni quando la conobbi. Era fidanzata da tempo con un ragazzo che si era laureato in matematica. Il nostro liceo, all’inizio dell’ultimo anno, organizzò una gita di una settimana a Vienna.

«È terribile essere una donna, e avere diciassette anni. Dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi. Le donne non valgono niente. Noi vediamo prima, ma i nostri occhi si chiudono anche prima. Scorgiamo le vette ma, se qualcuna vi arriva, è perché ha in sé molto di virile».

 

Improvvisamente lei si rese conto che non avevamo ancora visitato la casa di Sigmund Freud. Era già stata a Praga per la casa di Kafka, a Lisbona per quella di Pessoa e a Recanati per Leopardi, il suo preferito, così diceva.

«Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non comprende».

Nessuno aveva pensato di portare le classi a visitare la casa del padre della psicanalisi, in effetti.

Con la sua innata grazia persuasiva si avvicinò al tavolo dove cenavo con gli altri docenti e disse: «Ci tenevo molto. Non è proprio possibile andarci?».

Rispose subito la collega di italiano: «Ci avevamo pensato, ma sono così tante le cose da vedere che alla fine abbiamo dovuto rinunciare. In fondo è solo una casa».

Non aspettavo altro e presi la palla al balzo: «Posso portarla io, se la ragazza ci tiene. Chi vuole unirsi a noi?».

Silenzio.

Nell’atrio dell’ostello, il giorno successivo, eravamo solo io e lei. E andammo a visitare la casa di Sigmund Freud.

 

***

 

M: - Perdonami… Io devo scrivere un libro ma la protagonista sei tu. Ci vuole una storia, una trama, e questa non ce l’ha. E non ha una conclusione. Come finiamo? Aiutami a trovare una fine convincente, qualcosa che emozioni, funzioni, non lo so.

 

A: - Io non sono la tua protagonista, il tuo personaggio. Sono una persona. Non mi importa niente della tua storia. Non è romanzesca, non è teatrale? Pazienza. Vuoi il dramma a tutti i costi? «Il dramma deve concludere, e concludere sotto gli occhi dello spettatore»!  Qui non c’è alcun dramma, non c’è conclusione e non ci sono spettatori. Scrivi quello che vuoi… Che sono morta, che sono scappata in Australia e vivo in una capanna, che faccio l’infermiera in Africa, che sono un’autrice affermata e ricchissima con cinque figli, che sono in galera. Scegli tu. Abbi il coraggio di usare la tua fantasia. Non posso aiutarti io. «La stupidità consiste nel voler concludere», diceva qualcuno. Questa è la mia massima, non posso farci niente. Ho un titolo per te, però, anzi ben due! “Cranio vuoto” o “Bella ciao”. Usa pure quello che preferisci.

 

M: - Non capisco… I titoli non si scelgono alla fine, quando il libro è concluso?

 

A: - Chi ti ha messo in testa queste idee? Hai fatto uno stupido corso di scrittura, forse, o hai letto un manuale su come si scrive un libro?! Si comincia come si vuole, si va avanti come si vuole, si chiude o non si chiude come si vuole. Se si ha talento e bisogno di raccontare qualcosa, non ha nessuna importanza da dove si inizia o si finisce. E anche ciò che si racconta in fondo non ha importanza, «si può mettere un immenso amore anche nella storia di un filo d’erba». Il titolo invece è importantissimo!

 

M: -  Se lo dici tu mi fido. Ma perché “Cranio vuoto” o “Bella ciao”?

 

A: - Ho due ritornelli nella mente, da sempre. Mia madre quando ero piccola mi cantava Bella ciao. Ogni volta piangevo. Bastava che intonasse le prime parole per farmi stare male. Mio padre invece suonava la chitarra e strimpellava una canzone di un gruppo che si faceva chiamare i Gufi. Non ricordo il titolo, so che a un certo punto dice: «bevi Rosmunda, bevi nel cranio vuoto del tuo papà / dai retta al maritino se no la testa ti fa staccar»! Divertente, grottesca, ma io ero solo una bambina e mi faceva molta paura.

M: - Capisco…

A: - No, non puoi capire! E comunque adesso basta, ti ho già detto fin troppo, siamo tornati a parlare di me. Avevo detto di non volerlo fare. Vai a casa e scrivi, forza. Vedrai che sarà un bel libro. Sei un ragazzo in gamba.  

 

 

Ciò che mi sembra bello, ciò che vorrei fare insomma, è un libro su nulla.

Gustave Flaubert

Chiara Pasetti

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