Cultura20 febbraio 2021 17:44

Amore e (ma non è) morte

Con la sconvolgente attualità della penna di Séverine (di Chiara Pasetti)

Illustrazione de L'Ammazzatoio (di Emile Zola)

Illustrazione de L'Ammazzatoio (di Emile Zola)

È passato San Valentino senza che abbia scritto nulla sull’amore, e avrei voluto farlo oggi ricordando il filosofo Arthur Schopenhauer, nato a Danzica il 22 febbraio 1788. 

Le sue teorie sull’amore e la sessualità continuano ad affascinare, sconvolgere e far discutere tanto gli studenti che lo incontrano per la prima volta quanto gli esperti. 

Sono costretta invece a scrivere non di amore bensì di morte, purtroppo, e di farlo non in modo astratto: stamattina ho appreso dell’ennesimo crimine compiuto nei confronti di una donna. 

Clara, genovese, sessantanove anni, è stata uccisa dall’ex compagno a colpi di coltellate. Trenta per la precisione. 

Scorrendo facebook ho letto i commenti e gli articoli di tanti amici e amiche, giornalisti, persone che hanno sentito il bisogno e il dovere di prendere la parola, e ho deciso di farlo a mia volta, soprattutto attraverso uno scritto di chi molti anni prima di me aveva assunto una posizione chiara e coraggiosa, esprimendo una lucidità, un amore per la verità e una lungimiranza oggi piuttosto rari: Séverine (1855-1929).

Apprezzo molto chi scrive (e sono in tanti) ciò che penso da sempre, ossia che non è sufficiente, benché importante, parlarne, festeggiare l’otto marzo, celebrare la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne il 27 novembre; apprezzo chi giustamente sottolinea quanto poco possa contare affermare che “il femminicidio va cancellato” «per fare bella figura sulla testata di qualche quotidiano con la dichiarazione giusta» (Lara Maggiali). 

Apprezzo chi si è stufato delle parole.  

Accanto alle iniziative, convegni, manifestazioni, inaugurazioni, utili a sensibilizzare il più possibile e a far sapere quanto il fenomeno sia drammaticamente esteso (dalla pandemia in poi, ancora di più), ora bisogna agire: «le azioni sono necessarie e non procrastinabili »(sempre Maggiali). 

«Il pericolo non aspetta», afferma la giudice francese Isabelle Rome, attualmente alto funzionario alle pari opportunità presso il Ministero della Giustizia, da sempre strenuamente impegnata per i diritti delle donne, a favore dell’uguaglianza e della fratellanza, nonché per la lotta contro la violenza, non solo coniugale (di lei e del suo ultimo libro avevamo scritto qui: https://www.lanuovasavona.it/2020/11/21/leggi-notizia/argomenti/cultura-3/articolo/non-ho-mai-dimenticato-i-volti-delle-donne-violentate.html).

Armando Sanna, oggi: «mentre parliamo di violenza sulle donne, ogni tre giorni in Italia muore una donna. Le parole e le ricorrenze non bastano più. Adesso servono i fatti». 

Ilaria Cavo auspica una «rivoluzione culturale» e chiude il suo pensiero sull’atroce vicenda di Clara con l’hastag #nessuna scusa.  

Si potrà parlare davvero di rivoluzione culturale (e di uguaglianza, dunque di libertà), quando sarà avvenuta prima una «mobilitazione generale» (sempre Rome) che comprenda tutte le competenze, la giustizia, la polizia e le associazioni, le quali devono coagularsi intorno allo scopo di porre fine alle violenze e ai femminicidi. 

Il discorso è lungo e complesso e sarebbe importante entrare nel merito dei segnali di allerta da non sottovalutare assolutamente, delle misure di protezione da adottare e degli investimenti da compiere.

Un tema che viene ancora troppo poco affrontato (lo fa molto bene Stefania Prandi nel suo libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta, ed. Settenove) riguarda appunto le ripercussioni, fisiche e psicologiche, degli atti di violenza contro le donne, a volte irrimediabili, nell’ambito prima di tutto della famiglia della vittima e del suo cerchio di conoscenze e amicizie e poi della società tutta. 

I femminicidi «fanno esplodere la cellula famigliare e avvelano e minacciano alla base l’equilibrio dell’intera società», denuncia Rome.

Dagli stereotipi di genere all’educazione, dal ruolo della scuola e della famiglia a quello delle istituzioni, dai retaggi culturali all’anacronistica guerra fra i sessi, dalle nuove leggi di cui la Spagna è pioniera ai precursori delle battaglie contro la violenza, sono moltissime le sfaccettature, le implicazioni e le conseguenze di un atto criminale finalizzato alla morte di una donna.

Personalmente avverto fortemente la responsabilità della scelta e dell’utilizzo delle parole, sempre e in particolare di fronte a un fenomeno come il femminicidio che scuote, indigna, ferisce, pone mille dubbi e domande. E che ci riguarda tutti, non soltanto le donne, non soltanto le femministe militanti. 

Mi colpisce pertanto il fatto che oggi diversi commenti alla tragedia di Clara si concentrino (anche) sul linguaggio dei mezzi di informazione e comunicazione, nei quali ricorrono parole che non si vorrebbero e dovrebbero (più) leggere associate alle motivazioni dell’uccisione di una donna (e di una persona, in generale): alcune di queste, le più ricorrenti, sono amore, gelosia, passione, crimine/omicidio passionale

A titolo di esempio, scrive Paolo Borrometi sulla sua pagina: 

«Clara Ceccarelli è stata uccisa con 30 coltellate che, solo a pensarci, fa rabbrividire.

30, una dopo l’altra.

Adesso non dite che “l’ha uccisa per amore”.

L’amore non c’entra nulla. Proprio nulla».

Gli fa eco Donatella Alfonso: 

«Vi cadesse la penna e si incendiasse la tastiera ogni volta che scrivete “omicidio passionale”. 

Avete imparato a scrivere femminicidio, usate le parole giuste anche per chi lo compie. Un assassino è un assassino, si spiegherà in aula, se mai, non certo sulle cronache».

La comunicazione è fondamentale, delicata, potente, pericolosa. Dovrebbe saperlo bene chi vi basa e costruisce la propria professione.

Le parole vanno usate con cautela e coraggio, equilibrio spesso difficile da trovare, ancor più nel caso di crimini contro gli esseri umani. 

Eppure, c’è anche chi vi riesce o vi è riuscito.

Alla fine dell’Ottocento la giornalista e scrittrice pacifista Séverine scrisse un articolo intitolato Tueurs de femmes in cui cercò, come sempre, di analizzare, denunciare, e dire la verità. E si concentrò proprio sulle parole del dramma di cui aveva scelto di scrivere, il femminicidio: tra queste, in particolare «proprietà, amore, passione».

È il caso di leggere ciò che scrisse, di un’attualità sconvolgente, e di riflettere sul fatto che il binomio amore e morte, il più abusato e indagato dalla letteratura e dall’arte di tutti i tempi (anche da Schopehauer, di cui volevo scrivere…) è tanto intrigante, onirico e al contempo realistico se resta appunto letterario, filosofico, psicoanalitico, creativo. 

L’amore, con tutte le sue infinite, luminose e talora cupe, sfumature, non è mai un pretesto per giustificare o anche solo argomentare l’uccisione di una donna, di una compagna, di una madre, così come di alcun essere vivente.

Amore è amore. 

Non è e non genera morte se non nei romanzi, nelle poesie, nei quadri. 

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

L’amore, tema meraviglioso ed eterno su cui versare ancora fiumi di inchiostro, se si parla di persone vere, uomini e donne uccise, non va nominato sui giornali o, peggio, in tribunale.

Ma nemmeno per strada e in casa propria.

Tueurs des femmes

 

 

     Non bisogna ingannarsi: i tre quarti dei marcantoni che uccidono la propria moglie non hanno in alcun modo la scusa della gelosia, il pretesto della passione.

     La passione è rara tra persone che si devono l’amore – come ci si deve il denaro! – il vincolo dei corpi, soppresso tra privati nei casi di debiti ordinari, esiste, in tutta la sua forza, per debiti coniugali.

     Si tratta di rendere onore alla propria firma, di pagare (sotto gli occhi di tutti) il trattato stipulato con il proprio consorte. Poiché quest’ultimo, non dimentichiamolo, può sottrarsi, attraverso la fuga, a uno spiacevole regolamento di conti: la bancarotta maschile è ammessa, la polizia non ha che da mettersi alle calcagna del marito disertore. 

     Invece, per la moglie, la questione è assai diversa. Urbi et orbi, nella propria patria, la donna resta sotto le regole del proprio padrone; l’imposizione le è marchiata in fronte; e se la fuga viene scoperta il marito può, con l’aiuto di un gendarme, farla condannare all’ergastolo – senza alcun problema! – al pari di una ladra o di una criminale qualsiasi.

 

 

    Da dove viene, dunque, questo intervento della legge; questa parzialità in favore del forte contro il debole; questo vecchio residuato di barbarie che intacca la nostra pseudo-civiltà?

    Inutile cercare! Questo atteggiamento si riallaccia all’autorità paterna, alla benignità dei castighi che colpiscono i parenti-carnefici o i mariti accoltellatori.

     È l’eredità della vecchia legislazione romana: il potere illimitato del capo famiglia sui propri cari; il bambino proprietà del padre, la donna proprietà dello sposo!

     Ecco la parola magica che sfugge: proprietà! Poiché è l’istinto di possesso, ancora una volta, che ritroviamo al fondo di questi crimini famigliari. È ciò che assicura – almeno stando a quando sperano i colpevoli e i fatti, spesso, danno loro ragione – l’impunità, o la quasi impunità, del misfatto. Coloro che lo commettono, investiti, come credono, da una sorta di mandato legale, non avvertono né l’apprensione né i rimorsi dei comuni mortali. Alcuni sono addirittura stupiti d’essere perseguiti; credevano d’aver il «diritto» –  che il frutto delle loro viscere gli appartenesse come fosse il prodotto del loro raccolto; che la loro acquisizione coniugale gli appartenesse come si trattasse di un orologio o di un baule!

     E tutto questo non soltanto in campagna, ma anche in città; è questo sentimento, esasperato come un calcolo non riuscito, una speculazione fallita, che arma il pugno di quasi tutti gli assassini.

    Passione! Si fa presto a dir così! A parte qualche Otello, spesso ridicolo, ancor più spesso abominevole, la passione non esercita certo tali disastri nella nostra tiepida epoca. Senza andare a cercare troppo lontano, o troppo in basso, accontentiamoci degli esempi forniti dal tran tran quotidiano del crimine; e vedrete poi se la ferocia che ne scaturisce non ricorda, stranamente, la crudeltà dell’orticoltore verso il ladruncolo, del contadino verso il vagabondo.

     — Tu hai toccato un mio bene, io ti massacro! E più soffrirai, più io sarò vendicato! […] È questo! Non è altro che questo! […] Pensate al dramma dell’avenue Trudaine, dove un minorato ha sgozzato una povera ragazza, affinché nessuno potesse far sua quest’innocente di cui egli non poteva approfittare sessualmente, e che gli apparteneva, a lui solo – in nome della legge! È stato forse per amore che Langlois fece fuoco a tre riprese sulla povera moglie, uccidendola davanti a sua madre, accanto alla culla dei suoi figli? [Séverine elenca di seguito altre donne uccise per mano dei loro mariti o compagni, e conclude questa parte chiedendosi retoricamente]: 

è stato certamente l’amore che li ha portati ad agire con tale “vivacità”?! No! 

 

L’amore, la passione, se si smarriscono nel mezzo delle convenzioni sociali, restano allo stato di infime eccezioni. Ci si può amare, certo, anche da sposati… e pure teneramente! Ma nel momento in cui la repulsione o l’odio si mettono in mezzo non restano, all’interno del matrimonio, che un padrone e una schiava: quest’ultima non è altro che una cosa, il bene dell’altro!

 Furore d’amante?! Ma assolutamente no! Violenza di proprietario che è stato leso, frustrato – e che si è vendicato!

 

Estratto dall’articolo di Séverine, inedito in Italia, «Tueurs de femmes» (del 1896). 

Trad. a cura di chi scrive

 

***  

 

https://www.lanuovasavona.it/2021/02/20/leggi-notizia/argomenti/news-1/articolo/i-femminicidi-non-si-combattono-con-le-dichiarazioni.html

 

 

https://sosdonne.com/2021/02/19/clara-lidia-e-antonia-3-donne-uccise-in-un-giorno-14-in-due-mesi-e-una-guerra

 

 

Oggi dalle ore 16 in via Colombo a Genova è in corso una manifestazione contro i femminicidi organizzata dal “Centro antiviolenza Mascherona” insieme a “Non una di meno – Genova”.

Chiara Pasetti

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