Cultura16 maggio 2020 14:52

Le tentazioni dei santi, il tentativo degli artisti

Passate le feste, gabbato lo santo. E la Chiara (io). Che in comune con la Santa di cui porto il nome ho, aimè, davvero solo il nome. Il 25 aprile è andato, il 1 maggio pure, la mamma - nel senso di festa - anche (di Chiara Pasetti)

Le tentazioni dei santi, il tentativo degli artisti

Cosa mi invento oggi? Mi sento orfana di ricorrenze, smarrita, soprattutto alla vigilia della riapertura, del “rilancio”. Ma come, si riapre, e io invece di sentirmi sollevata mi sento più melanconica che mai? Da ciò che sto leggendo su facebook e sui giornali non sono (da) sola, comunque, bensì in buona e mi pare nutrita compagnia. Sono tante le persone che provano un senso diffuso e confuso di disorientamento, di nostalgia del prima (della pandemia) e di paura dell’oggi e del domani. Mi domando il motivo e mi rispondo che le ragioni sono molteplici. Innanzitutto sanitarie. L’emergenza è tutt’altro che passata. Ieri sera un amico scrittore di Genova scrive che ha un’ansia pazzesca all’idea del “liberi tutti”. Un’amica trentenne di Bergamo (la città più colpita in assoluto) mi scrive che finalmente, dopo due mesi dall’aver contratto il virus, il suo tampone è negativo. Gioisco con lei e per lei, lo ha sconfitto! Ma mi dispiace molto perché nonostante il risultato del tampone, continua ad avere sintomi: dolore al petto, affanno, febbricola. E di conseguenza grandi difficoltà nel tornare al suo lavoro; di uscire e “fare la sua vita” (frase che sento e mi sento dire un po’ troppo spesso, e comincio a provarne fastidio, lo ammetto) non ce l’ha neanche in mente, dopo quello che ha passato e sta ancora passando. Fare la mia vita. Eccola qui, la chiave! Della prudenza e anche della melanconia… E non solo. Partiamo dal fatto che mi chiamo Chiara, ma avrei dovuto secondo gli intenti di mio padre chiamarmi Melania, che etimologicamente di clarus è l’esatto contrario. Come tutti, ma forse un po’ di più perché è scritto nei due nomi, porto in me luce e oscurità, bianco e nero. Purtroppo non ho mai “imparato” il grigio, e mi è costato tanto. Il grigio è compromesso, è mediazione, ma è anche temperanza, virtù che mi appartiene poco. Fin da piccola ho “fatto la mia vita”, nel senso che sono sempre stata libera di seguire passioni e interessi. E quali sono le figure da cui sono sempre stata affascinata? Guarda un po’, i solitari, gli eremiti, gli emarginati, i melanconici. I nati sotto il segno di Saturno… La solitudine, come mi fa notare un amico, è una dimensione oltremodo affascinante perché consente una ricerca continua, spesso frustrante, di un dialogo con se stessi. Questa è la mia parte Melania, lo so. Ma c’è anche la parte Chiara, naturalmente, che ha bisogno come l’aria di relazioni, di contatto, di affetto, di non isolarsi se non in alcuni momenti (non sempre compresi e talvolta giudicati come egoismo o ripiegamento in me stessa). No, non credo di essere ripiegata su/in me stessa. E con me di certo non lo sono le persone che in questo momento sceglieranno liberamente di non uscire (ancora), o sceglieranno di riprendere la propria vita con calma, con prudenza, aspettando di sentire notizie migliori rispetto a ora per quanto riguarda la pandemia in corso. Ognuno di noi ha uno o più personaggi solitari e tormentati del cuore, è innegabile che siano carichi di fascino (guarda caso Schopenhauer, e poi Nietzsche, sono forse i filosofi più amati dai ragazzi di quinta liceo). Impossibile anche questa volta, nello spazio di un articolo, citare tutti i personaggi del passato, di finzione e non, che in qualche modo incarnano la solitudine. Parlo dei miei, allora, perché sola et pensosa sono sempre stata, parafrasando uno dei miei primi amori, Petrarca. I più recenti: sicuramente la scultrice Camille Claudel e la poetessa Antonia Pozzi, accomunate dal periodo storico, da un modo di vivere libero e controcorrente per i tempi, e da un destino tragico, l’internamento nel primo caso, il suicidio nel secondo.  Un attimo… Accomunate dall’essere artiste, prima di tutto! Ecco, l’artista è solitario. Che sia uno scrittore, un musicista, un attore, un pittore, un poeta, ecc., l’artista per creare sta (spesso) in solitudine. Come un ragazzo che vuole davvero studiare, in fondo (a questo proposito cito un bel testo di Paola Mastrocola, La passione ribelle, dedicato ai ribelli invisibili, ossia i “secchioni”, coloro che studiano). L’artista deve, e vuole, stare con se stesso, fermo, in silenzio, da solo, per poter sentire la propria voce interiore, e quella delle tante suggestioni che gli arrivano dal mondo esteriore. Come un alchimista, egli fonde il dentro e il fuori in un magico e insondabile risultato, che è appunto l’opera d’arte. È sempre stato così. Ancora una volta, Flaubert mi è maestro. I critici lo chiamano l’eremita di Croisset. Formula felice, anche se non corrisponde del tutto al vero. Flaubert, di natura generoso e affettuoso, ospitava a casa sua tantissimi amici scrittori e non, con cui condivideva l’amore per la letteratura (e anche per il vino e il buon cibo!). Quando era a Parigi per le sue ricerche, partecipava sempre alle cene organizzate da Zola o da altri colleghi di penna. Ma era felice, anche se la cosa lo faceva «soffrire orribilmente», quando scriveva. Quando si ritirava in solitudine, rinunciando a vedere chiunque, e cercava, con impegno e fatica, di buttare giù «una pagina». Quando ero ragazza il personaggio flaubertiano di solitudine e malinconia che più ho amato era naturalmente Emma Bovary. Più avanti, ho scoperto sant’Antonio. L’eremita, l’anacoreta vissuto nel deserto della Tebaide tra il III e il IV secolo dopo Cristo. Flaubert gli dedicò «l’opera di tutta la mia vita», La Tentation de saint Antoine, scritta in gioventù dopo aver visto a Genova il dipinto cinquecentesco Le Tentazioni di sant’Antonio Abate (prima attribuito a Pieter Brueghel, ora a Jan Veerbeck). Non la pubblicò. La sistemò nel 1856, ma ne fece uscire solo qualche frammento. E infine nel 1872 la riscrisse totalmente, pubblicandola. Ebbene, se tanti citano sempre la frase, apocrifa tra l’altro, Madame Bovary c’est moi, ho spesso pensato e detto che sicuramente la frase più “giusta” per Flaubert è Antonio c’est moi… E a questo punto mi sento di affermare che “c’est nous”, come mi aveva acutamente fatto notare anche la mia docente di lettere del liceo, scomparsa tre anni fa: «sant’Antonio siamo noi, con le nostre illusioni, i nostri sogni, le nostre ossessioni, le nostre paure, i fantasmi che ci portiamo dentro, che ci aiutano ad andare avanti o ci precipitano nel buio della disperazione. È già l’uomo del nostro tempo e i demoni sono, in realtà, dentro di lui» (Francesca Fonio).

 

Pochi giorni fa gli artisti sono stati definiti dal Presidente del Consiglio «coloro che ci fanno tanto divertire», frase che ha sollevato non poche, legittime, indignazioni. Pensavo ieri che è un onore essere qualificati così! I saltimbanchi sono da sempre metafora e «epifania dell’artista», come ha scritto il grande Jean Starobinski. Facevano, fanno divertire? Forse, anche. A prezzo di emarginazione, spesso povertà, talvolta scherni. «Curvo, abbattuto, decrepito, un rudere d’uomo […]. Ho appena visto l’immagine dell’uomo di lettere che è sopravvissuto alla generazione di cui fu il brillante intrattenitore, del vecchio poeta senza amici, senza famiglia, senza figli, degradato dalla miseria e dall’ingratitudine pubblica, e nella baracca di chi il mondo dimentico non vuole più visitare!». Cosa dicono queste righe del poeta dei Fiori? Che non è cambiato molto. Conte (senza saperlo, immagino, ma lui è avvocato, per carità, non letterato) si inserisce nel solco di una tradizione molto lunga, che vede nell’artista “colui che fa divertire”. L’artista, da sempre, è «una mostruosità, un essere al di là della natura» (ancora Flaubert), tant’è vero che le metafore animali si sprecano. Baudelaire e i gufi, Kafka e le scimmie, Flaubert e la bigia, ecc. Ciò che li accomuna è la solitudine, è vero; ma anche la passione. La fede. Come sant’Antonio, in fondo. «Ipocrita colui che si immerge nella propria solitudine per dare libero sfogo alle proprie bramosie!», si legge nel testo flaubertiano. Ipocriti, gli artisti? Non so, non quelli che conosco io (e quelli veri). Bramosi nel senso di appassionati, tentati dal demone dell’arte? Sicuramente. Una tentazione a volte fatale. Che tuttavia è possibile vivere sì in solitudine, ma con umanità, generosità, e con il sorriso.

Ne è un sublime esempio un Artista scomparso ieri, Ezio Bosso. Un maestro, che ha saputo “fare la sua vita” come ha voluto nonostante la malattia e, ancora di più forse, nonostante la celebrità (arrivata dopo Sanremo, quando erano anni che questo splendido uomo suonava e componeva musica). Chissà quanta malinconia ha provato, Ezio. Prima come artista, e poi come persona che si è ammalata di una malattia che, lo sapeva, non gli avrebbe lasciato scampo. Eppure ha sempre sorriso. Non ha mai cercato di impietosire nessuno, né di diventare un personaggio. Ha sempre lavorato e suonato per amore della musica e dopo aver smesso di suonare ha messo la sua arte al servizio dei musicisti dell’orchestra che dirigeva, che ieri gli hanno tributato saluti commossi. Ezio lo aveva detto molto bene e anche più chiaramente di Flaubert: «sono un uomo con una disabilità evidente, in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono». Credo che mai come ora gli artisti debbano seguire il suo esempio: uscire dalla tentazione del ripiegamento solipsistico e malinconico (confortevole, per certi aspetti, ma questo sì, credo, un po’ egoista nonché snob) e innanzitutto sorridere. Fare in modo, per tornare alle parole della mia professoressa del liceo, che i fantasmi che (tutti, artisti, santi e non) ci portiamo dentro non ci conducano alla disperazione ma ci aiutino ad andare avanti. E credo che gli artisti debbano lottare per non essere mai più considerati solo coloro che fanno divertire. Perché dietro il loro “divertimento” (sempre che ci sia, tantissimi artisti non producono cose comiche…) c’è sofferenza, lavoro, fatica, studio, e soprattutto c’è tanto amore. E dunque anche gioia, come Bosso testimonia. Se vogliamo che gli artisti, in ogni ambito, siano ri-conosciuti, credo che la strada sia questa. Senza paura, ma con prudenza e rispetto, appena si potrà “uscire” dalle nostre tane senza rischi per nessuno. La musica, l’arte, la poesia sono beni necessari, ha ragione sempre Ezio Bosso nella sua ultima intervista diffusa in aprile. Beni che non hanno e non devono avere alcuno scopo, a mio parere, se non quello di far sognare. Tentiamoci. Una volta per tutte. Magari sorridendo. Le altre tentazioni le conosciamo bene… Questa può essere un’opportunità di crescita e di cambiamento.

Io, nel mio piccolo, ci proverò. Mettendo un po’ da parte Melania (anche se mi piace tanto, ma lei tende a sorridere poco…), e ricordandomi che il mio nome all’anagrafe è, che mi piaccia o meno, Chiara.

 

Ciò che mi pare essere il vertice dell’arte, e la cosa più difficile, non è far ridere o piangere, o mettere in fregola o in furore, ma agire al modo della natura: far sognare.

Gustave Flaubert

Su Le Tentazioni di sant’Antonio (dipinto e opera di Flaubert): https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2015/11/125233.html

Giulia Cassini:

https://www.ilsecoloxix.it/eventi/2018/11/15/news/le-tentazioni-di-sant-antonio-abate-tra-arte-e-letteratura-1.30588782

Chiara Pasetti

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