News31 maggio 2020 16:18

Sanità: tutto sbagliato, tutto da rifare

La spesa pubblica per la sanità diminuiva mentre cresceva quella a carico dei cittadini. L’assistenza territoriale veniva abbandonata in nome di poche “eccellenze” ospedaliere che abbiamo visto travolte dall’epidemia, tra medici in fuga all’estero e posti letto tagliati. La Corte dei Conti traccia un affresco impietoso della sanità italiana nel rapporto 2020: ve ne offriamo gli stralci a nostro parere più interessanti, ricordando che la sanità è in capo alle Regioni e che chi si candida a governarle dovrebbe leggere con la massima attenzione anziché parlare di gestione ineccepibile dell’emergenza

Sanità: tutto sbagliato, tutto da rifare

Differenze inaccettabili nella qualità dei servizi sanitari offerti nelle diverse aree del Paese, carenze di personale dovute ai vincoli posti nella fase di risanamento, ai limiti nella programmazione delle risorse professionali necessarie ma, anche, ad una fuga progressiva dal sistema pubblico; insufficienze della assistenza territoriale a fronte del crescente fenomeno delle non autosufficienze e delle cronicità; lento procedere degli investimenti sacrificati a fronte delle necessità correnti. 

Ecco in pillole le criticità segnalate dalla Corte dei Conti per ciò che riguarda la sanità pubblica. 

Di seguito, i passaggi che ci sembrano più importanti.

La crisi ha messo in luce anche, e soprattutto, i rischi insiti nel ritardo con cui ci si è mossi per rafforzare le strutture territoriali a fronte del forte sforzo operato per il recupero di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero. 

Se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori che per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura (la banca dati Esiti da questo punto di vista ne forniva una chiara evidenza), la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate

Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, tale carenza ha finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta. 

È infatti sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. 

L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto

Un effettivo potenziamento della assistenza territoriale rappresenta una priorità: tale rete costituisce una sorta di prima linea anche nella guerra alla pandemia. 

Non investire adeguatamente sul territorio è destinato a ripercuotersi negativamente sugli ospedali, oltre a far gravare sugli stessi operatori un onere inaccettabile in termini di vite umane

Si dovrà comprendere, per orientare le scelte future, quanto una struttura territoriale messa nelle condizioni di fornire una assistenza adeguata e di intercettare i segnali epidemiologici con maggior rapidità avrebbero potuto contribuire ad un più efficace contenimento della diffusione della pandemia.

Assistenza domiciliare integrata 

Tra il 2012 e il 2017 il numero dei casi trattati a livello nazionale è cresciuto di poco meno del 50 per cento, con una crescita più sostenuta nelle regioni non in piano (piano di rientro, ndr). Si tratta di dati che nascondono, tuttavia, andamenti molto diversi anche in ragione delle differenti risposte date allo stesso problema a livello territoriale: nelle regioni non in piano, ad esempio, sono Veneto, Emilia e Toscana a presentare un numero di casi trattati per abitante superiori al doppio del dato medio nazionale, riuscendo a raggiungere più di un anziano su 10. Tutte le altre regioni, fatta eccezione del Friuli-Venezia Giulia, presentano un valore inferiore alla media, con quota di popolazione anziana raggiunta superiore al 5 per cento solo in Lombardia. Anche una regione a forte presenza di popolazione con più di 65 anni come la Liguria arriva a trattare poco più del 3 per cento dei casi.

Sono quattro gli aspetti su cui si è più soffermata l’indagine della Corte dei Conti: 

la graduale riduzione della spesa pubblica per la sanità e il crescente ruolo di quella a carico dei cittadini,

la contrazione del personale a tempo indeterminato e il crescente ricorso a contratti a tempo determinato o a consulenze,

la riduzione delle strutture di ricovero e l’assistenza territoriale,

il rallentamento degli investimenti.

A seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del SSN è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)

La spesa per il personale a tempo indeterminato di tutti ruoli si è ridotta tra il 2012 e il 2018 di poco meno del 4 per cento. 

Nello stesso periodo quella per addetti a tempo determinato è aumentata del 48 per cento. 

In crescita anche il ricorso a diverse forme di lavoro da privati (collaborazioni, consulenze e lavoro interinale), aumentato nello stesso intervallo del 6,2 per cento.

La fuga di cervelli

Negli ultimi 8 anni, secondo i dati Ocse, sono oltre 9.000 i medici formatisi in Italia che sono andati a lavorare all’estero.

La riduzione dei posti letto

Un ulteriore aspetto di rilievo del dibattito che ha accompagnato i giorni dell’emergenza sanitaria è quello della riduzione registrata nel nostro Paese nel numero dei posti letto di ricovero. Pur essendo un fenomeno comune agli altri Paesi europei, è indubbio che con la flessione registrata a 3,2 posti per 1000 abitanti, il nostro si pone ben al di sotto degli standard di Francia e Germania che hanno, rispettivamente 6 e 8 posti, accomunando la nostra condizione a quella di Spagna e Gran Bretagna con 3 e 2,5 posti per mille abitanti.

Una delle ragioni alla base della riduzione dei posti letto è legata alla chiusura dei piccoli ospedali. Con la fissazione di standard sempre più stringenti in termini di posti letto per abitanti si è voluto mettere le gestioni regionali (a cui è stata lasciata la possibilità di decidere quali reparti o ospedali chiudere) nelle condizioni di affrontare il problema dei piccoli ospedali, quelli che, specie sul fronte della attività chirurgica, operano spesso su volumi troppo contenuti per garantire adeguati livelli di qualità. La chiusura dei piccoli presidi crea però problemi di accesso alle cure, specie nelle aree extraurbane, che dovevano essere controbilanciate da servizi territoriali più adeguati.

QUI il rapporto completo.

LNS

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