Contromano10 aprile 2019 07:42

Ribrezzo all'Interno

“Quello lì”, “mi fa schifo”, “si dovrebbe vergognare”: scoprire di poter cambiare idea

Ribrezzo all'Interno

Mi è stato insegnato dai miei genitori (e ho cercato a mia volta di insegnare a mio figlio) che l’espressione “mi fa schifo” non si deve dire riferita a (quasi) nulla. E più avanti rivelo il perché del quasi.

A tavola, per esempio, se qualcosa non è di nostro gradimento, si dice “no grazie” e non “mi fa schifo”, perché non è rispettoso nei confronti di chi ha cucinato e ancor più nei confronti di chi non ha la possibilità di scegliere tra le polpette o l’arrosto, le patate fritte o bollite… Ogni tanto mio figlio, negli anni (come tutti i bambini forse, lo spero!), ha detto “mi fa schifo” riferito a un piatto (a onor del vero io cucino proprio male, ma non è questo il punto…) o a una materia scolastica che non gli piace. Ora, per fortuna, da un po’ non gli sento più pronunciare questa espressione che, lei sì, “mi fa schifo” (sarà che sono amante della lingua italiana e trovo che ci siano tanti bei sinonimi per esprimere questo concetto in modo meno “basso”). A maggior ragione, e mi scuso ma ho studiato Estetica quindi questi temi sono un po’ il mio pane, se essa è oltremodo fastidiosa rivolta a una “cosa” (un cibo, un libro, una canzone, un quadro, un mobile, e potrei andare avanti con l’elenco ma mi fermo) che soggettivamente può non piacere ma non oggettivamente (su questo tema si potrebbe aprire una lunga discussione kantianamente fondata sul bello, sul brutto, sul sublime, e su ciò che piace universalmente o al contrario non può ambire a tanto), l’espressione “mi fa schifo” diventa orribile e oltraggiosa se riferita a un essere vivente: umano, animale e aggiungo anche vegetale.

Anche in questo caso, come per ciò che riguarda un oggetto o una creazione dello spirito, un essere vivente può suscitare sentimenti di simpatia o di negatività, può generare in noi il desiderio di conoscerlo o viceversa di tenerlo lontano, ma non può “fare schifo”.

Passiamo al secondo argomento, la vergogna. Poche volte nella vita ho provato questo sentimento; da ragazzina sicuramente, come tutti, deve avermi pervaso un senso di vergogna se un professore mi trovava con un compito non svolto (è capitato di rado, ma è capitato), o se un ragazzo davanti a tutti mi faceva un complimento che non gradivo, o soprattutto se qualcuno si comportava in modo ingiusto nei confronti di persone a cui volevo bene (e a quel punto la vergogna si tramutava in indignazione e quasi subito nel desiderio di prendere le difese della persona offesa).

Da grande, in effetti, non mi sono mai vergognata di ciò che sono e di ciò che faccio, nel bene e nel male.

Mi sono trovata spesso, invece, a pensare che fossero vergognosi comportamenti di abuso e sopruso, questo sì. Ultimamente confesso che la parola “vergogna” di fronte a certe situazioni della vita pubblica mi risuona spesso nella mente. Non la dico, magari, ma la penso. Talvolta la scrivo. Certamente mai mi verrebbe in mente nei confronti di chi ha perso una persona cara, un familiare, un amore.

Ultimo argomento: “quello lì”. Non sono un angelo, anzi!, ma non mi appartiene proprio il fatto di indicare qualcuno dicendo “quello lì” o “quella lì”. Se poi, tornando a quanto scritto prima, “quello lì” è una persona morta, non mi sfiora neppure il pensiero di qualificarlo così.

Sarò strana io, forse. Ma mi è stato insegnato e credo di conoscere il rispetto, che passa anche, e a volte specialmente, attraverso le parole, perché le parole sono atti, sono prese di posizione. Del resto il mio amato Flaubert, riprendendo un concetto di Buffon, affermava che «scrivere bene significa al contempo sentire bene, pensare bene e dire bene» (e, aggiungo, fare bene): forma e contenuto sono inscindibili, come «la carne e il sangue» (sempre Flaubert).

La carne e il sangue, le lacrime, la ricerca della verità, la lotta, il dolore della sorella di “quello lì”, ossia di Stefano Cucchi, al nostro Ministro dell’Interno “fanno schifo”. Le sue parole e le sue battaglie gli fanno dire che “si deve vergognare”.

In una sola frase ha messo insieme tre concetti-espressioni (“mi fa schifo”, “si dovrebbe vergognare”, “quello lì”) che sono certa (e non perché sono “buona” ma perché sono una persona che sente e pensa, prima di parlare, anche se non sono un Ministro, o forse soprattutto!) di non aver mai associato in tutta la mia vita nei confronti di una persona sola, e di una persona che ha perso un fratello in particolare.

Per la prima volta dunque mi trovo, con dispiacere in questo caso, a cambiare idea su una mia convinzione. Si può eccome associare questi tre enunciati e questi tre pensieri. L’ho fatto oggi, leggendo ciò che disse (sentì e pensò)  nel 2016 il Ministro.

Ora posso affermare che “quello lì”, “mi fa schifo”, “si dovrebbe vergognare” (da leggersi con e senza virgola tra una proposizione e l’altra…) possono andare insieme, e possono essere pensati e riferiti a una persona sola. Che, ovviamente, non è Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano.

Cercherò (ma non sono certa di riuscirci, ora…) di non dire a mio figlio che “mi fa schifo” non deve affermarlo quasi mai.

(G. Flaubert, Madame Bovary)

https://www.open.online/fact-checking/2019/04/09/news/fact_checking_la_citazione_di_matteo_salvini_la_sorella_di_cucchi_mi_fa_schifo-188695/  

Chiara Pasetti

Ti potrebbero interessare anche:

Le notizie de LA NUOVA SAVONA

domenica 25 febbraio
domenica 28 gennaio
venerdì 29 dicembre