Quando si cura una rubrica settimanale bisognerebbe avere sempre qualcosa da scrivere che si leghi all’attualità, o avere pronto un articolo magari già scritto in altre occasioni da riadattare.
Oggi chi scrive non ha né l’uno né l’altro. O meglio, non riesce a trovare nulla di “sensato” da dire, sempre che sia utile cercare sempre e a tutti i costi un senso.
Siamo saturi di notizie sul covid da mesi e ieri in particolare è stata una giornata piuttosto delirante.
Dpcm nuovo in arrivo, che non è ancora arrivato (e che ansia mettono queste attese, soprattutto a chi sa che sarà direttamente coinvolto dalle nuove norme), contagi in vertiginoso rialzo (molti positivi sono asintomatici o hanno sintomi lievi), ospedali che cominciano ad essere sotto pressione (di nuovo), ipotesi chiusura scuole e ripristino didattica a distanza (di nuovo), ipotesi lockdown da scongiurare, coprifuoco, dpcm emanato qualche giorno fa pieno di incongruenze (si veda articolo di stamane di questa testata: https://www.lanuovasavona.it/2020/10/17/leggi-notizia/argomenti/news-1/articolo/il-covid-a-mezzanotte-e-un-quarto.html).
In mezzo a tutto ciò, per limitarci all’Italia, notizie e fotografie irritanti e di cattivissimo gusto come quelle della quarantena di Cristiano Ronaldo a bordo di una piscina super lusso, di come sta Federica Pellegrini (campionessa grandissima, ma il video in cui in lacrime annuncia di essere positiva – e dopo un giorno comunica, per fortuna, che sta meglio – era necessario?), della nuova gravidanza di Chiara Ferragni (auguri…) se non, peggio ancora, di ciò che accade nella casa del Grande Fratello vip.
I social si dividono tra coloro che sono indignati, arrabbiati, preoccupati e stufi e coloro che postano meme (trionfa De Luca su tutti, e speriamo che “lo sceriffo” riceva una candidatura all’Oscar a fine pandemia), disegni, battute e provano con l’ironia ad affrontare il momento tutt’altro che luminoso.
C’è anche una (piccola) parte degli utenti social che non parla quasi mai di covid e prova ad andare avanti postando poesie, dipinti, fiori, animali, pensieri, frasi che aiutino coloro che leggono e guardano a non pensare al virus.
Ma non è possibile.
E poi ci sono gli inviti agli “eventi”: conferenze, spettacoli teatrali, presentazioni di libri, mostre, fiere, mercati. Inviti a cui normalmente avremmo risposto “parteciperò” o anche solo “mi interessa” per dare visibilità all’iniziativa proposta.
Ora non sappiamo cosa fare, esitiamo tra la paura e il desiderio di vivere, la “voglia di normalità” e la consapevolezza che questa non è la normalità e non lo sarà ancora per tanto tempo.
Leggendo frasi come “riparte il teatro di…”, “ricomincia la stagione de…”, “inaugurazione della mostra a…” eccetera, si prova una certa commozione mista a un vago malessere, e la sensazione che ci si stia illudendo. Che ci sia qualcosa che non torna. Qualcosa che sfugge.
I teatri in questa situazione non reggeranno, i festival culturali, i pochi che si riescono a organizzare, sono quasi tutti volontari, alle mostre in pochi hanno voglia di recarsi, con ingressi contingentati e minuti stabiliti per fermarsi ad ammirare un’opera. Inoltre c’è di nuovo, comprensibilmente, molta paura, nonostante si sappia che la malattia ora viene trattata in modo completamente diverso rispetto ai mesi primaverili.
Siamo tutti stanchi e avvinti in un modo o nell’altro da quella che è stata chiamata “pandemic fatigue”, che in documento emanato dall’Oms insieme ai consigli per superarla viene così descritta:
“La fatica dovuta alla pandemia è una risposta prevedibile e naturale a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti, compreso chi non è stato direttamente toccato dal virus”.
Si è tentati di lasciar perdere internet, di togliersi da facebook, di non leggere più nulla, ma in fondo è (ancora e di nuovo) il solo legame con molte persone che non possiamo vedere. E il solo legame con le notizie (importanti) in tempo reale.
Ci sono, inoltre, i giovani, gli studenti. E su questo scriveremo una rubrica a parte, perché il discorso è davvero complesso e articolato. Movida (non se ne può più di questo termine) e dunque untori, o vittime del tutto prive di responsabilità nei confronti del rialzo dei contagi? Né l’uno né l’altro, certamente, ma è opportuno riflettere sulla fascia di età 6-18, ossia l’età scolare che da mesi, come tutti noi del resto, risente di quanto sta accadendo e viene colpita al cuore della sua stessa vita e formazione personale e intellettuale: la scuola.
Un mese fa, con il direttore di questa testata e l’adesione di Achille Lauro, è ricominciato il video progetto incentrato sulla pandemia; il primo corto diffuso a fine settembre ha come titolo “L’incognita” (https://youtu.be/6RhsRrGuw-w).
Mai come in questo momento, un mese dopo aver deciso di far ripartire il progetto che coinvolgerà studenti di diverse città d’Italia e differenti indirizzi di studio, “l’incognita” non è solo una parola bensì è davvero “la cosa”. La realtà. Tangibile eppur evanescente, ideale eppur concreta.
Restiamo in sospeso, pertanto, attaccati ognuno alle proprie convinzioni, paure, dubbi, incertezze, necessità, desideri, speranze. Che spesso si concentrano (e amplificano) dentro uno schermo.
Riflettendo su quel “qualcosa che non torna”, che sfugge, che non si riesce a mettere a fuoco, ma che dovrà pur delinearsi presto o tardi (o forse no, chissà) vengono in mente le parole di Eugenio Montale, nato a Genova il 12 ottobre del 1896 e morto a Milano nel 1981, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1975, che nonostante l’innato pessimismo si è sempre sentito vicino a un quid rivelatore e liberatore. E per descrivere questa, strana e straniante, condizione, ha utilizzato metafore sublimi come il varco, la smagliatura nella rete, il fantasma che può salvare, lo sbaglio di natura, l’anello che non tiene, o ancora il filo da disbrogliare che metta «nel mezzo di una verità».
Intenerisce rileggere una sua celebre poesia contenuta in Satura (1971) dedicata alla moglie, chiamata spesso «la mosca», mancata nel 1963.
La riportiamo, questa splendida lirica, per evitare di continuare a parlare del covid e delle sue conseguenze, e per invitare chiunque senta il desiderio di vedere più chiaro a continuare ad indagare, non solo con gli occhi incollati al cellulare nel quale spesso non si trova niente di utile, e a considerare l’importanza di una visione e dunque di una condivisione di idee plurale o almeno a quattr’occhi, con i quali forse si vede di più. Che siano, gli altri occhi, quelli di un figlio, di un amico, di un amore o di un genitore, non ha importanza. L’importante è che siano di una persona di cui ci fidiamo e a cui ci affidiamo, e con la quale ci sentiamo al sicuro nello scendere e salire milioni di scale perché sappiamo che le sta guardando insieme a noi… Anzi, le sta guardando meglio, perché oltre a pensare di proteggere se stessa pensa di dover proteggere noi.
Fuor di metafora, proviamo a vedere ed agire, ci si perdoni il romanticismo, con gli occhi dell’amore, con il linguaggio del cuore, nei confronti di noi stessi e di chi ci sta vicino.
Potrebbe essere sorprendente.
Con la promessa di un’uscita meno vaga, indefinita e sospesa la prossima settimana, leggiamo Montale.
E la poesia in generale.
Prima di leggere il nuovo Dpcm… E anche dopo averlo letto.
Ho sceso, dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Eugenio Montale