E ci toccano perché a finir nella tempesta, nel già terribile casino che sta vivendo il Paese tra crisi economica, sociale e ormai anche psicologica, è proprio quel partito che avrebbe dovuto garantire l’inserimento di “qualcosa di sinistra” nel programma di governo.
Un governo che - bisogna ricordarlo - vede come altri azionisti la Lega di Salvini, la vecchia Forza Italia del malconcio ma sempre potente Berlusconi e un Movimento 5 Stelle squassato dalle lotte intestine che attende le prime mosse di Giuseppe Conte per ricollocarsi sullo scacchiere politico e riappacificarsi con l’elettorato.
Certo, c’è Draghi, che ha fatto capire chiaramente che nessuno toccherà palla.
Però c’è anche un Parlamento che dovrebbe tentare, pian piano, di ritrovare la sua centralità e non sarà semplice con due dei maggiori partiti in crisi profonda.
D’altra parte i “mai” in politica a volte - e solo a sinistra - si pagano.
E in questo periodo ne abbiamo sentiti parecchi, tutti disattesi: “mai senza Conte, piuttosto elezioni”, “mai coi sovranisti, piuttosto elezioni”, “mai con Matteo Renzi”.
La credibilità è poca, la solidità della base elettorale ancor più loffia, minata da tempo: da quando il partito ha dimenticato di ascoltare le istanze dei lavoratori e dei poveri per farsi centro di potere fine a se stesso e alla conservazione di quel potere.
Zingaretti potrebbe decidere a questo punto di tornare sui suoi passi, come chiedono Delrio e molti militanti, non formalizzando le dimissioni e rimanendo quindi in sella legittimato in qualche modo dalle molte richieste di restare segretario.
Oppure andrà avanti, e in questo caso la corrente renziana - che nel PD è ben presente e forse anche più forte di prima - potrebbe essere l’ago della bilancia.
Il che non ci tranquillizza per niente.