Nel bel mezzo del Ferragosto Roberto Mancini lascia la nazionale che aveva diretto per 5 anni vincendo l’Europeo e fallendo clamorosamente la qualificazione ai Mondiali del ’22: sconfitta con la Macedonia del Nord, almeno Foni era rimasto fuori nel 1958 dall’Irlanda del Nord e Ventura nel 2014 dalla Svezia.
“Bobby goal” purtroppo orfano del suo vero mentore, in campo e in panchina, Gianluca Vialli accusava da tempo uno strano “malessere” di carattere psicologico: pare prontamente risolto da un’offerta da 40 milioni l’anno da parte di quel Ibn Salman protagonista di episodi pochi commendevoli come quello legato all’uccisione del giornalista Kasoggi: Ibn Salman grande amico di Matteo Renzi e “anima” del calcio saudita super-collezionista di figurine da milioni di euro pronte a partecipare ad una specie di torneo “vecchie glorie” in fase discendente.
Ricordato al Roberto idolo della gradinata Sud che da CT dell’Arabia Saudita dovrà far giocare gli atleti locali e non potrà permettersi il lusso, come fecero negli USA, in diverse occasioni di mandare in campo chi si trovava in quel momento a giocare in una loro lega: capitò nel 1950 ai mondiali brasiliani quel Gaetjens, haitiano – olandese, che segnò il goal della vittoria sull’Inghilterra e poi negli anni’70 al momento del lancio dei Cosmos quando nel torneo per il bicentenario dell’indipendenza la nazionale USA schierò Chinaglia e – addirittura – Pelè.
Il nostro pensiero però, appresa la notizia, è corso a Vittorio Pozzo.
Nel 1929 l’allora presidente della FIGC, Leandro Arpinati, affidò la squadra nazionale a Vittorio Pozzo in veste di Commissario Unico, che accettò, dando il via al periodo d’oro della nazionale italiana. Pozzo aveva già guidato gli azzurri alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912 e a quelle di Parigi del 1924. Nel volgere del decennio degli anni’30 ispirato dallo schema tattico applicato con successo dalla Juventus allenata da Carlo Carcano, di cui i suoi giocatori costituirono l’asse portante, Pozzo collezionò un palmarés difficilmente uguagliabile. Vinse infatti due titoli mondiali nel 1934 e nel 1938, un oro olimpico nel 1936 (l’unico del calcio italiano) e due Coppe Internazionali (manifestazione antesignana del Campionato europeo di calcio) nel 1930 e 1935. L’unica vittoria che sfuggì all’Italia di Pozzo di quell’irripetibile decennio fu quella della seconda edizione della Coppa Internazionale del 1932, in cui l’Italia si classificò comunque seconda.
Su pressioni della Federcalcio, Pozzo diede le dimissioni da commissario tecnico il 5 agosto del 1948. Era ritenuto un uomo del passato, non più adatto a ricoprire il suo ruolo: veniva identificato con i successi sportivi del regime fascista. Inoltre rimaneva un convinto assertore della validità del metodo, mentre le squadre maggiormente vincenti all’epoca applicavano il sistema. E tra queste, paradossalmente, c’era il Grande Torino, ossatura della sua nazionale negli anni del secondo dopoguerra. Non è facile dargli il benservito. Pozzo non vuole saperne e quando sl suo posto viene chiamato Ferruccio Novo, suo intimo nemico, si offende a morte. Un’uscita di scena sofferta e amara per un grande commissario unico e un vero galantuomo. “Da vero gentleman – scrive ancora Gianni Brera nella sua Bibbia del calcio italico – Pozzo non ha mai presentato una nota spesa, in tanti anni, e ha sempre rifiutato compensi. Al momento di tirare le somme, sembra onesto regalargli un appartamentino a Torino. Il vecchio riempie quell’appartamentino di libri e carte di giornali che dovrebbero costituire il suo archivio. Come vi si possa raccapezzare è un autentico mistero. In realtà è sempre stato molto restio a parlare di sé. Pubblica un libro nel quale non racconta che la minima parte di quanto potrebbe”.
Al momento del ritiro, Pozzo era stato commissario tecnico della nazionale per 6.927 giorni: un primato battuto solo da Enzo Bearzot. Aveva collezionato 97 panchine con la nazionale, con un totale di 65 vittorie, 17 pareggi e 15 sconfitte. La sua percentuale di vittorie è pari al 67.01% delle partite giocate: un record tra i CT azzurri. Il suo ultimo, straziante, atto ufficiale fu nel 1949 il riconoscimento dei corpi dilaniati dei calciatori del Grande Torino, suoi amici e allievi, periti il 4 maggio nella immane tragedia di Superga.
Come giornalista continuò a scrivere di calcio per “La Stampa” e nell’autunno del 1967 pochi mesi prima di morire tornò a Savona (dove dagli anni’30 non aveva più portato la Nazionale in allenamento ritenendo il gioco dei bianco blu troppo “maschio” per le caviglie dei suoi preziosi assi) per un Savona – Pro Patria. Alcuni giovani cronisti savonesi lo accompagnarono in visita al cimitero di Vado dove sulle tombe di Felice Levratto e Valerio Bacigalupo rivolse il saluto militare restando rigidamente sull’attenti. Un’immagine commovente e indimenticabile.