Non è più sufficiente parlare di “pulsione di morte”. Non basta l’evocazione freudiana della Thanatos per spiegare la ferocia dei nostri tempi. Se un tempo la distruttività umana era inscritta nel registro del lutto, del conflitto, della perdita e della riparazione – oggi ci confrontiamo con un salto ulteriore: la perversione della morte.
Non più solo uccidere, ma negare l’esistenza dell’altro. Estinguerlo come soggetto, come popolo, come cultura, come storia.
Lo vediamo nell’aggressione russa all’Ucraina, nella sistematica demolizione della popolazione palestinese a Gaza, nelle morti bianche e nei femminicidi, che scandiscono il tempo quotidiano come un sottofondo assordante.
E lo vediamo nella complicità muta delle potenze internazionali, e in particolare dell'Occidente, che sotto la maschera della democrazia globale perpetua un imperialismo economico e mediatico che ha perso il volto umano.
Se per le scuole pulsionali classiche – da Freud a Klein – queste derive sarebbero la conferma della distruttività originaria dell’uomo, altre tradizioni psicoanalitiche propongono letture differenti.
La psicoanalisi relazionale e intersoggettiva, o quella ontologica, invita a distinguere tra un’aggressività vitale – legata al risveglio di sé – e una distruttività che nasce dal fallimento dell’ambiente originario. Winnicott lo aveva intuito: la distruzione dell’oggetto non è in sé patologica, ma può diventare creativa se l’oggetto sopravvive, se consente di essere usato, se resta vivo nella relazione.
Ma oggi viviamo una situazione nuova: la demolizione della possibilità stessa del lutto, la sparizione della ritualità, l’impossibilità di sopravvivere all’aggressione come processo di crescita. L’altro viene annientato non per essere incorporato, trasformato, ucciso e pianto, ma per essere negato: cosificato, ridotto a zero, a scarto. Non esiste più l’avversario, ma solo il non-essere.
La crudeltà contemporanea ha il volto dell’indifferenza mediatica, della reificazione sistematica, dell’estinzione come desiderio sociale. Questo non è più il campo della psicoanalisi classica: è il campo della negazione perversa, della necrofilia politica, del godimento sadico mascherato da razionalità. È un menù servito ogni giorno da giornalisti compiacenti, da politici ipnotizzati dal potere, da accademie arroccate che invitano chi si interroga sul sociale a occuparsi “di altro”.
A tutto questo si aggiunge un altro veleno: l’isolamento. Chi denuncia, chi pensa, chi osa portare dentro la professione lo sguardo inquieto sull’umano, viene disconfermato, delegittimato, silenziato. L’arte dell’esclusione è raffinata quanto quella del dominio.Siamo chiamati a riconoscere i tre pilastri della nuova crudeltà:perversione dell’annientamento, isolamento culturale, discredito sistematico.È da qui, forse, che può ripartire una nuova etica della responsabilità.Non del sapere, ma del sentire. Non della diagnosi, ma della presenza.
Dal Caro Estinto all’Estinzione: la morte come feticcio del nulla
Condivido profondamente la necessità di smascherare l’ipocrisia delle visioni pacifiste romantiche: troppo spesso esse onorano i morti senza impedire che altri continuino a morire. In nome della pace, si sacrifica la giustizia; in nome della memoria, si dimentica il presente.
La distruttività contemporanea, nella sua versione più estrema, non si accontenta più della morte — aspira all’estinzione. L’atomica non è solo un’arma, è un paradigma: rappresenta un nuovo modo di sentire la distruzione, una qualità assoluta del male che mira a rendere irreversibile la scomparsa dell’umano. Non si tratta più soltanto di homo homini lupus, ma di homo homini lapis — l’altro come macigno, peso morto, ostacolo da rimuovere.
Le scienze sociali e la psicoanalisi, ancorate alle teorie classiche della pulsione di morte, non hanno ancora pienamente compreso l’orizzonte apocalittico che si profila all’orizzonte. Denunciare la distruttività o analizzare il narcisismo di morte non basta più: oggi si manifesta un desiderio inedito, che non si accontenta di annientare l’altro ma vuole vaporizzare ogni traccia del suo passaggio.
Da bambino, ho imparato il significato del Caro Estinto leggendo i manifesti funebri affissi sui muri delle città: la morte era allora un evento che lasciava dietro di sé lutto, memoria, testimonianza. Il Caro Estinto aveva una vita, una famiglia, un legame sociale che lo piangeva. Ma l’estinzione non è la morte. È la cancellazione del diritto stesso al ricordo. È la negazione del lutto, la soppressione della riparazione.
In questo senso, l’estinzione non è solo biologica, ma ontologica e affettiva. È il tentativo folle di trasformare il niente in feticcio: un assoluto negativo idolatrato come potenza pura, priva di ogni residuo umano. Una negazione senza dialettica, senza rimorso, senza rimedio.
Ecco perché la morte per la morte — quando diventa programma, ideologia, esercizio geopolitico di dominio — è l’espressione suprema del Male. Non più solo uccidere, ma impedire che qualcosa o qualcuno possa ancora essere.