Cultura17 aprile 2021 14:33

Un anno dopo

Quando si cura una rubrica ci si assume un impegno nei confronti della redazione e dei lettori (di Chiara Pasetti)

Un anno dopo

 

Questa testata da un anno esatto ospita ogni sabato un mio articolo; nelle ultime quattro settimane non sono riuscita a scrivere nulla che fosse degno di essere condiviso e me ne scuso con tutti i lettori che mi hanno seguito con affetto, spesso commentando ciò che ho scritto e stimolando in me ulteriori riflessioni e idee.

Desidero essere sincera con chi mi legge e dire la verità, prima di tutto per me stessa.

Sono triste, sconfortata, disorientata, senza energie fisiche e mentali. Soprattutto mentali.

So perfettamente che non sono motivi validi per mancare a un appuntamento, ma ci sono momenti in cui ogni parola sembra stonata, banale, priva di senso. O momenti in cui le parole non escono proprio, perché nessuna riesce davvero a descrivere lo stato d’animo che si sta provando.

E capita che ci si chiuda nel silenzio; tra l’altro ormai c’è una tale mole di articoli, post, appuntamenti sui social per discutere di qualunque cosa, presentare qualunque cosa, essere sempre e comunque presenti e pronti a esprimere la propria opinione che personalmente mi sento fuori luogo, fuori posto, fuori tempo (sensazione che ho provato spesso nella vita ma ultimamente è diventata decisamente più presente).

Ho sempre scelto con cura le parole, sapendo di avere una responsabilità nei confronti di chi mi legge e anche di me stessa. Se le parole non vengono o “suonano male” c’è qualcosa che non va e forse è meglio fermarsi nel tentativo di fermare il turbinio di pensieri che affollano la mente.

Non sono certo la sola a provare tutto questo, a un anno dall’inizio della pandemia; amici e amiche mi riferiscono di non riuscire a concentrarsi, di iniziare un lavoro e non terminarlo, di alternare momenti di relativa positività ad altri di grande apatia e tristezza, nervosismo e rabbia. Per non parlare di chi mi racconta di svegliarsi piangendo, di chi non dorme, di chi non ha più stimoli e compie meccanicamente il proprio dovere senza nessun entusiasmo.

L’emergenza sanitaria, che in realtà non ha mai mollato la presa, nell’ultimo mese è tornata ad aggravarsi e come lo scorso anno ha costretto gli studenti a seguire le lezioni da casa, molti lavoratori a dover chiudere le proprie attività, altri a non sapere ancora quando potranno riaprire.

Da questa settimana gli studenti delle regioni che sono diventate arancioni sono tornati in classe, quelli delle scuole superiori a giorni alterni. Eppure molti ragazzi affermano che avrebbero preferito restare a casa, e ciò è drammatico.

Hanno perso l’abitudine a uscire, vestirsi, preparare la cartella, prendere la bicicletta o un pullman per recarsi a scuola, confrontarsi con docenti e compagni.

Hanno perso fiducia in se stessi e nella scuola, o ne hanno paura.

Sanno che l’anno scolastico è agli sgoccioli e i professori, nella maggior parte dei casi, utilizzeranno i momenti in presenza per interrogarli, fare verifiche, dare voti, perché i programmi vanno terminati e le competenze testate. Ma tanti ragazzi non riescono più a studiare, non dormono, hanno disturbi psichici più o meno gravi e il momento della verifica o dell’interrogazione, che normalmente è fonte di stress positivo e assolutamente gestibile, adesso per alcuni diventa insopportabile.

Avrebbero bisogno di essere ascoltati, aiutati, rassicurati e non giudicati, in ogni senso. Stanno crollando gli adulti, dopo un anno di pandemia, come si può non capire che un ragazzino o un adolescente non può essere trattato come se nulla fosse successo, come se questo fosse un anno scolastico “normale”?

Alcune persone molto vicine a me hanno contratto il virus, hanno avuto sintomi più o meno intensi e debilitanti e sono stremate dall’attesa del tampone, dall’isolamento necessario, dall’impossibilità di stare accanto a familiari magari in ospedale, bisognosi di cure, dalla paura di aver contagiato i più fragili o i più anziani. Altre hanno perso genitori, mariti, mogli, amici; non riesco neanche a immaginare cosa significhi sapere che c’è qualcuno che ami in ospedale e non poterlo vedere, non potergli tenere la mano, non poter alleviare la sua sofferenza e ricevere notizie del suo stato di salute al telefono, da un medico o un infermiere che riferisce il quadro clinico, se è migliorato o peggiorato, e chiude la conversazione perché ha altre cento telefonate di questo tipo da fare. Provate, se avete la fortuna di non aver vissuto questa terribile situazione, a pensarci un attimo… Sia dalla parte del paziente che del medico.

Altrettante non hanno avuto il covid ma stanno male, sono angosciate per il proprio futuro, per quello dei propri figli e dei giovani in generale.

Moltissime sono alle prese con difficoltà economiche serie e non vedono spiragli di luce in un paese sempre più vecchio e stanco.

Mi trovo quotidianamente da mesi, e nell’ultimo in particolare, a parlare con persone che stanno soffrendo fisicamente o emotivamente; cerco di dire loro qualcosa che possa confortarle, che possa aiutarle a sentirsi meglio ma le mie parole, come quelle di chiunque, lasciano il tempo di una telefonata o di un messaggio. Soprattutto mi sento impotente, abbiamo a che fare con qualcosa che non possiamo controllare, cambiare, eliminare ma solo accettare.

Non si parla d’altro che di malattia e di morte e delle conseguenze che la malattia ha avuto e avrà sulle nostre vite.

L’attesa della fine di tutto questo, e la totale incertezza per ciò che ci aspetta dopo, sta distruggendo, o comunque congelando, sogni e speranze di molti.

Gli uomini sono nati per creare, per progettare, e quando viene meno la speranza la volontà vacilla.

Io per prima ho sempre pensato che non si debba mai rinunciare ai propri sogni e il famoso “se vuoi, puoi” mi ha guidato in molte situazioni, dandomi la spinta per continuare a credere in me stessa e nelle mie passioni.

Ammiro moltissimo chi riesce, nonostante tutto, in questo momento così duro a portare avanti progetti e a svolgere il proprio lavoro con costanza e impegno e, magari, anche con allegria. Personalmente sto facendo molta fatica.

La cultura, l’arte, tutto ciò che ha a che fare con l’anima e la bellezza, salvo pochissime eccezioni, è fermo da un anno. In realtà era agonizzante da tempo e non abbiamo fatto nulla per impedire che accadesse, anzi in alcuni casi ci siamo resi complici di una morte annunciata di cui non si è ancora, tuttavia, resa del tutto nota la cronaca: i motivi sono molteplici, complessi, non così evidenti. Proverò in un altro momento ad analizzarne almeno alcuni, nel tentativo di capire se sarà possibile, una volta usciti dall’emergenza sanitaria, curare l’emergenza culturale e artistica e come. Curare l’anima, ferita, sofferente, impaurita di ognuno di noi.

Rileggo ciò che ho scritto e mi pare banale e stonato esattamente come un mese fa. Con un sola differenza: oggi ho deciso di non nascondere come mi sento, di non nascondermi, e di provare anche se in modo forse confuso e disordinato a far uscire i miei pensieri, non fosse altro che per avvisare e rassicurare i lettori che hanno chiesto mie notizie.

Siamo ossessionati dal giudizio degli altri, dall’idea di deludere sempre qualcuno se ci mostriamo imperfetti, fragili, senza risposte, senza certezze. Se abbiamo paura.

Vorrei imparare a non avere paura di avere paura, a sapere di poterlo dire e scrivere senza curarmi di ciò che penserà la gente di me, e vorrei tanto poter aiutare le persone che hanno paura, sono tristi e stanno trattenendo le loro emozioni.

Forse questa rubrica potrebbe servire anche a questo, chissà.

A sabato prossimo, spero con la mente meno e il cuore un po’ meno oppressi.

 

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Il primo articolo di questa rubrica, 18 aprile 2020:

https://www.lanuovasavona.it/2020/04/18/leggi-notizia/argomenti/cultura-3/articolo/boh-bom.html

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