Cultura04 luglio 2020 14:45

Caschetti, maschietti, giovinotte e fluidità

Un luglio particolarmente caldo e faticoso non solo a livello di temperature, questo appena cominciato. Oggi avrei voluto annunciare la mia rassegna di agosto a Varigotti, che per il terzo anno, e nonostante i problemi connessi all’emergenza, porterà in Piazza Libeccio attori e artisti (di Chiara Pasetti)

Locandina del film del 1936 tratto dal romanzo di Victor Margueritte, per la regia di Jean de Limur, con Marie Bell, Arletty e Edith Piaf

Locandina del film del 1936 tratto dal romanzo di Victor Margueritte, per la regia di Jean de Limur, con Marie Bell, Arletty e Edith Piaf

Ma ho pensato che un po’ di attesa non guasta, in fondo il primo spettacolo che inaugura l’edizione di quest’anno si terrà l’otto di agosto, e sommersi come siamo tutti dalle migliaia di notizie il programma della mia piccola rassegna estiva rischierebbe di perdersi e disperdersi da qui alle prossime settimane. In questi giorni, non capisco perché, continuo a ricevere notifiche da google relative ad articoli di giornali femminili (mai letti o cercati) che parlano di tagli di capelli in vista del caldo e dell’estate. Porto i capelli lunghi da sempre e vado dal parrucchiere due volte all’anno, non comprendo per quale strano algoritmo i motivi di ricerca hanno deciso che io sono interessata a sapere quali sono i tagli delle star o presunte tali per l’estate 2020… Mistero! In un momento di pausa, mi costringo a leggere uno di questi articoli e scopro che è tornato di moda il caschetto anni Venti (che sta bene forse solo a Charlize Theron), detto anche taglio alla garçonne.

Credo che in pochi sappiano da dove viene il nome della pettinatura che quest’anno sarà la prediletta per la testa delle vip e delle loro estimatrici. Un’altra faccenda che sta spopolando sui social molto più del taglio a caschetto è “FaceApp”, ora addirittura con filtro transgender che consente di vedersi in versione femminile se si è un maschio e in versione maschile se si è una donna.

Lo scorso anno anche “Snapchat” aveva lanciato un filtro di questo tipo per i propri utenti, guadagnandosi il plauso della comunità transgender che lo vede come un’opportunità per sensibilizzare il grande pubblico su un tema tabù come quello della transessualità (eh già, serve una app per sensibilizzare…). Un’esperienza giudicata trasformativa per tutti coloro che non hanno ancora familiarizzato con il concetto di fluidità di genere; è necessario farlo, pare. Insomma, “Faceapp” e il taglio di capelli né troppo maschile né troppo femminile che google continua a proporre, induce a tornare un po’ indietro nel tempo, ricordando che la cosiddetta ideologia gender (che include autori, scrittori e intellettuali di ogni lingua e Paese, alcuni davvero notevoli) affonda le radici nel femminismo e nei movimenti di liberazione sessuale degli anni ’60-70, ma ancora prima nell’ateismo e nel marxismo di fine Ottocento. Tra questi due momenti, non dimentichiamo che ci sono stati gli anni della Belle Époque.

Anni in cui, non tanto in Italia quanto specialmente in Francia e anche in Inghilterra, ha cominciato prepotentemente a farsi strada il ripudio del concetto di sessualità binaria (maschio e femmina) e del matrimonio, nonché della famiglia tradizionale.

Lungi da me analizzare, quanto meno ora e in questa sede, tale fenomeno; lo ha fatto molto bene, tra gli altri, l’attivista Martin Duberman nel suo ultimo saggio volto a cancellare ogni forma di moralità e ad instaurare una «rivoluzione gender per cui maschio e femmina diventino distinzioni obsolete».

Vorrei invece invitare alla lettura di un testo che mi aveva particolarmente colpito tempo fa, e che mi ricollega al discorso del taglio di capelli alla maschietto, o a caschetto se preferite: La Garçonne, dello scrittore francese (nato in Algeria) Victor Margueritte (1866-1942). Un libro quanto mai attuale, decisamente più affascinante, istruttivo e conturbante di “FaceApp”, a mio modesto parere.

Il romanzo del 1922 è stato riscoperto e tradotto da Sonzogno qualche anno fa, poiché l’unica versione italiana, dal titolo La Giovinotta, ad opera di Decio Cinti (scrittore e traduttore molto vicino a Marinetti, a cui si devono anche le prime traduzioni di poeti quali Baudelaire, Verlaine, Mallarmé), risaliva allo stesso anno di pubblicazione dell’edizione francese, il 1922 appunto.

Quasi sconosciuto in Italia, vendette in Francia settecentocinquantamila copie, e subito dopo la pubblicazione ne vennero tratti due film e una pièce teatrale curata dallo stesso Margueritte: un successo editoriale a dir poco esplosivo, che nel giro di qualche anno divenne un fenomeno sociale, accompagnato e sicuramente favorito da un grande succès de scandale che coinvolse le autorità politiche, le istituzioni culturali, la stampa e l’opinione pubblica.

Margueritte, prima di questo romanzo «scandaloso», aveva pubblicato altri testi, introducendo temi sociali legati alla condizione femminile: la parità dei sessi, l’emancipazione della donna, l’union libre. Era considerato una figura di spicco nel mondo letterario e intellettuale dei primi due decenni del XX secolo; già presidente della Société des Gens de Lettres, nel 1914 aveva ricevuto la carica di cavaliere della Légion d’Honneur.

Nel 1907 la sua prima opera realizzata senza la collaborazione del fratello Paul, intitolata Prostituée, in cui si affrontava il tema crudo della prostituzione e dello sfruttamento della donna, venne considerata «altamente morale». Per continuare la sua battaglia, di stampo pacifista, venata di un socialismo radicale (cui alternerà posizioni fortemente reazionarie, che lo porteranno anche ad assumere inquietanti toni antisemiti) a favore delle rivendicazioni femministe, affermando l’importanza dell’emancipazione sessuale, economica e intellettuale delle donne, lo scrittore realizza negli anni Venti una trilogia dal titolo emblematico La Femme en chemin, di cui La Garçonne costituisce il primo atto.

E fa scoppiare un gigantesco caso letterario.

La Chiesa mette immediatamente all’indice il romanzo, la Société che l’aveva eletto suo presidente lo abbandona, e la stessa Légion d’honneur apre una causa, che terminerà il 2 gennaio 1923 con il decreto di radiazione: l’autore de La Garçonne è accusato di immoralità e pornografia, di essersi compiaciuto nel descrivere «scene di devianze sessuali ripugnanti», e dunque di aver compiuto un deplorevole «outrage aux mœurs» (erano passati settant’anni dai grandi processi letterari di metà Ottocento, tra cui quelli noti a Madame Bovary e ai Fiori del male, ma la musica non era cambiata molto). Come scrive Margueritte difendendosi dalle accuse, è sempre «per ciò che contiene di verità che un’opera nuova sciocca i contemporanei», e anche in questo ricorda l’avvocato dell’accusa durante il processo al capolavoro flaubertiano del 1857: «Madame Bovary è impregnato di un realismo volgare e spesso urtante».

Lasciando da parte Flaubert e la sua Emma, qual è la verità che Margueritte, o meglio la sua protagonista, la garçonne Monique Lebrier, ha sbattuto in faccia all’élite parigina degli «anni folli» con «un realismo eccessivo»? Monique è una jeune fille ventenne, intelligente, très jolie, nata in una ricca famiglia di industriali che durante la guerra ha accumulato molto denaro. Frequenta i corsi della Sorbona, pratica sport, e nonostante sia del tutto disinteressata alla vita di società, tanto da apparire stravagante agli occhi degli altri, è una femme moderne a tutti gli effetti (sotto questi aspetti assomiglia molto alla poetessa e fotografa italiana a me molto cara Antonia Pozzi, morta suicida nel 1938 a ventisei anni).

Promessa sposa al fabbricante di automobili Lucien Vigneret, che ama senza riserve e con generoso abbandono, non conoscendone (ancora) la reale natura arrivista e senza scrupoli, Monique crede nell’amore e ripone tutti i suoi sogni nel futuro matrimonio. 

Alla scoperta della relazione clandestina di Lucien con la modista Cléo, decide senza ripensamenti di rompere il fidanzamento. Si concede ad uno sconosciuto il giorno stesso della rivelazione del tradimento, lascia la casa dei genitori, sconcertati dal suo comportamento fuori dagli schemi, e da lì evolve: abbandona la jeunesse ed entra nella garçonnesse, acquisendo così i tratti distintivi della garçonne.

Da quel momento Monique prenderà coscienza del proprio corpo, intrecciando anche una relazione saffica con una star del musical, ma soprattutto scegliendo di darsi a più uomini e di abbandonarsi al vizio (tra cui quello dell’alcol e delle droghe, in particolare oppio e cocaina); apre un atelier di decorazioni di interni, garantendosi l’indipendenza economica che grazie al suo talento le consente di raggiungere l’agiatezza, trascorre le giornate nella propria garçonnière, stordita dall’assunzione di narcotici, o nei locali notturni dove si diletta in balli considerati licenziosi come il tango (ma anche lo shimmy e il fox-trot, complice la diffusione del jazz).

Si lascia tentare dall’idea della maternità (che non potrà concretizzarsi) ma senza voler essere la sposa di colui con cui avrebbe il desiderio di generare un figlio, e viene infine sedotta da un romanziere, Régis, che fin dal nome (da Rex, rĕgĕre) vorrebbe “governarla” e sottometterla, cancellandone la vita da garçonne. Il “maschio dominante” otterrà il solo risultato di rendere quest’anima «assetata di assoluto» (echi di Mallarmé, parente di Margueritte) ancor più disillusa e annoiata, e bisognosa di un amore «nuovo», puro, che nella terza e ultima parte del romanzo incontrerà.

Scegliendo di intitolare La Garçonne il suo romanzo, e non con il nome della protagonista, l’autore fornisce una chiave interpretativa importante, anche per le accuse che gli vennero rivolte: sta ritraendo un tipo umano, un exemplum e non un unicum, destinato grazie a lui a divenire un mito. Conducendo i dati analitici del reale ad uno stadio di tipificazione e normalizzazione, Margueritte descrive il «type actuel de la jeune fille française». E non solo francese. 

A onor del vero il termine garçonne era nato alla fine dell’Ottocento dalla penna decadente di Huysmans, che le opponeva la «femme hommasse», la virago, ma solo dopo il romanzo di Margueritte finirà con l’identificare un nuovo tipo femminile: da figura letteraria, la garçonne diventa quasi subito figura estetica e soggetto sociale, qualificando e aprendo a una nuova forma di vita femminile appunto garçonnière, il cui tratto distintivo, come già in Huysmans, è prima di tutto l’unione e la separazione di forme di vita e del corpo differenti. È soggetto di confine, unione di antitesi, che si pone in una zona liminale e per questo disorienta, seduce, intriga, inquieta. È perturbante, crea disordine, la garçonne, perché possiede, fonde, con-fonde tratti maschili e tratti femminili, sia nel comportamento sia nella sua silhouette.

La garçonne porta i capelli corti e tinti (il taglio à la garçonne, appunto), si trucca pesantemente gli occhi di nero (lo “smoky eyes”, tanto di moda oggi), indossa tailleur o abiti scollati allo scopo di appiattire la già longilinea, androgina figura (con preferenza per i kimono e i pigiama, che testimoniano un gusto orientalista anch’esso volto a evocare, nell’immagine dell’odalisca, scenari di lussuria e promiscuità), pratica sport per avere un corpo tonico e muscoloso, balla, fuma sigarette, guida l’automobile, ha una vasta e aggiornata cultura (soprattutto di autori contemporanei, tra cui Freud e Blum e coloro che si fanno portavoce delle posizioni più liberali sull’emancipazione femminile).

La sua «brama di indipendenza» la rende, «fisicamente e moralmente», uguale agli uomini, che seduce e spaventa per tutte queste caratteristiche, che incarnano una «nuova versione della grazia femminile», e ancor più per la raggiunta consapevolezza del suo essere corpo, carne, di cui riconosce come naturali, liberata da falsi pudori, i desideri, gli istinti, il piacere (termine che ricorre nel romanzo). A metà strada, fin dal nome e dai suoi derivati, tra il garçon manqué e la garce (la «sgualdrina»), la «maschietta» vive pienamente la sua identità, presentendo che si tratta di uno stadio che la condurrà, non senza fatica e dolore, come una moderna Minerva (soprannome datolo da Lucien all’inizio del libro), al conseguimento di una maturità di femme piena e appagante, proprio perché attraversata dalle esperienze torbide e gioiose, feconde e sterili, della garçonne che è stata.

Alla fine di questa bittersweet symphony, sembra dirci Margueritte, Monique Lebrier, essere «singolare» (ma, profeticamente intuisce l’autore, «che si stava già moltiplicando in migliaia di esemplari» in carne e ossa, e basta guardarci intorno per constatare quanto avesse ragione!), non fa la guerra agli uomini, non vuole competere con loro, ma chiede soltanto, come tutte le garçonnes degli anni Venti  - e di oggi -, che gli uomini facciano i conti con lei in quanto «creatura unica» che «non somiglia alle altre», essere straordinariamente ibrido e tuttavia completo, dalla vitalità e sessualità prorompenti da cui, malgrado tutto e tutti, sempre «sbocceranno fiori». Se poi questi fiori nascono, anche, dal letame, chi ci pensa quando se ne aspira il profumo?

Suggerisce l’autore alla fine del romanzo, forse omaggiando Flaubert : «chi sa a quali succhi escrementizi dobbiamo il profumo delle rose?». E ricordandoci una canzone, ben più avanti nel tempo, su sterili diamanti e fertili concimi del grande De André, poeta di tante garçonnes-femmes contemporanee, «anime salve», che salvano. Se stesse, le donne, tutte, e gli uomini. Ma solo quelli in grado di ri-conoscerle e, proprio per questo, di amarle.

Monique: - Le sembra così straordinario che in amore una donna pensi e agisca come un uomo? Deve rassegnarsi a quest’idea e prendermi per quel che sono: un giovanotto!

- Una sgualdrina, piuttosto! Pensò Briscot, ma per cortesia invece disse: - una garçonne. Sì, lo so…

V. Margueritte

 

Van Dongen, per l’edizione francese illustrata del 1925 de La Garçonne

Il romanzo: Victor Margueritte, La garçonne, traduzione di Giulio Lupieri, postfazione di Irene Bignardi, «Bittersweet», Sonzogno, Venezia.

(riscoperto e rieditato in Francia solo nel 2013: Victor Margueritte, La Garçonne, préface de Yannick Ripa, «Petite Bibliothèque Payot», Payot, Parigi 2013).

Chiara Pasetti

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