È un periodo di grande attività intellettuale, per il giovane, come si può vedere anche nelle lettere in cui fa allusione a molti progetti di pièces, romanzi, testi storici, drammi, poemi, critiche letterarie, “discorsi politici”, nonché alle recite tenute nel teatro allestito da lui stesso sul tavolo del biliardo, per cui meditava sempre nuovi e differenti copioni.
Fortunatamente né lui né la sua famiglia vennero coinvolti dall’ondata di colera che, nel 1832, colpì molte città e paesi della Francia. È pur vero però che, crescendo in un appartamento all’interno dell’ospedale dove il padre lavorava come chirurgo era costretto giornalmente a fare i conti con la sofferenza, il dolore, la morte stessa. L’ambiente dell’ospedale, dell’obitorio, la vicinanza con i malati lasceranno sullo scrittore una traccia indelebile che si ritrova in tutte le sue opere e si può immaginare che a quell’epoca il teatro del biliardo, e lo slancio verso la creazione di un proprio mondo cartaceo di fantasia e di sogno, rappresentassero la sua necessità di liberarsi dalla tristezza ed esorcizzare la paura, di cui era suo malgrado testimone.
L’anfiteatro dell’Hôtel Dieu dava sul nostro giardino. Quante volte, con mia sorella, ci siamo arrampicati alla griglia, e, sospesi in mezzo alla vite, abbiamo guardato con curiosità i cadaveri distesi. Il sole vi batteva sopra. Le stesse mosche che volteggiavano su di noi e sui fiori andavano a posarvisi, ritornavano, ronzavano…[…] Vedo ancora mio padre alzare il capo dalla sua dissezione e dire a noi di andarcene.
All’amica Leroyer de Chantepie, per motivare la sua posizione scettica nei confronti della vita e della morte, e il suo atteggiamento apparentemente distaccato, precisa:
Sono nato all’ospedale di Rouen, del quale mio padre era il primario di chirurgia, […] e sono cresciuto nel mezzo di tutte le miserie umane, dalle quali un muro mi separava. Da bambino, ho giocato in un anfiteatro di dissezione.
E sempre alla Chantepie, che si preoccupava della febbre gialla, nel 1861 scrive:
Mi ricordo di essere vissuto nel 1832 in pieno colera; un semplice tramezzo separava la nostra sala da pranzo da una sala piena di malati, dove le persone morivano come mosche. La nostra ora è segnata. A che scopo preoccuparsi, quando si ha la coscienza tranquilla?
Tutti i critici hanno sottolineato l’influenza che ha esercitato su Flaubert la frequentazione continua della malattia e della morte, che sfocerà quasi subito in una preoccupazione dell’agonia, del dolore, della sepoltura, del deperimento cui sono soggetti tutti gli esseri viventi, che esternerà sotto forma di angosce vere e proprie nei suoi più tragici racconti giovanili.
Lo scritto pubblicato è una riflessione, scritta in forma allegorica in ventisette versetti, intitolata significativamente La Femme du monde.
La morte e i riti funebri avevano preso posto nei testi di Flaubert fin dall’inizio della sua produzione; qui non si tratta tuttavia della morte inflitta da qualcuno, o da se stessi, ma la morte intesa come essenza permanente, destino fatale dell’umanità, che non risparmia nessuno e a cui tutto appartiene.
È un’anticipazione di opere successive come La Danse des morts, Smar, e poi de La tentazione di sant’Antonio, in cui la statura allegorica della morte si farà sempre più ampia, e le argomentazioni a favore della vittoria perenne di essa su tutto, e sulla vana e fasulla immortalità degli stessi dèi, dei popoli, della storia, degli imperatori, e del «figlio di Dio», si faranno ancora più profonde e convincenti, mostrando il cinismo violento di Flaubert.
La Femme du monde
Da ciò concludo, che Dio mi perdoni e il Diavolo
mi porti, che Satana tien dietro al Padre eterno.
(Auberge des Adrets)
I
Tu non mi conosci, fragile creatura malata; ebbene, ascolta!
II
Il mio nome è maledetto sulla terra; eppure la sventura, la disperazione, l’invidia che vi dominano come tiranni spesso m’invocano in loro soccorso.
III
Mi diverto soprattutto nelle metropoli e dirigo le mie mosse contro gli abitanti delle città.
IV
Tuttavia mi reco anche nella casa del contadino, prendo le pecore nella sua stalla, rapisco la capra che bruca sulla collina, il camoscio che salta sulla roccia appuntita; ghermisco l’uccello in volo, e il re sul trono.
V
Dal giorno in cui Adamo e la sua compagna furono cacciati dal paradiso io, la figlia di Satana, fronteggiai tutti gli imperi, tutti i secoli, tutte le dinastie reali, che polverizzavo sotto i miei piedi di scheletro.
VI
Invano ho udito popoli divorati dalla peste aggrapparsi alla vita, invano ho visto re che si abbarbicavano alla loro corona, invano ho visto le lacrime di una madre che chiedeva indietro suo figlio. La loro preghiera mi sembrava ridicola.
VII
E trituravo con avidità, sotto i miei denti, splendente giovinezza, potente impero, secoli pieni di gloria e d’onore, re, imperatori; cancellavo il loro blasone, la loro gloria e, nelle mie mani scarnificate, riducevo in polvere lo scettro dorato tanto facilmente quanto il bastone del pastore.
VIII
Amo scivolare nel letto d’una fanciulla, scavare lentamente le sue guance, suggerle il sangue, consumarla a poco a poco e rapirla al suo innamorato, ai genitori che piangono e singhiozzano su questa povera rosa appassita anzitempo.
IX
Traggo diletto dalla sua fronte ancora bianca, contemplo le sue labbra raggrinzite dalla febbre, odo con piacere il ronzio delle mosche che volteggiano intorno alla sua testa in putrefazione.
X
E rido avidamente vedendo i vermi che strisciano sul suo corpo.
XI
Amo accomodarmi ai banchetti reali, agli allegri convivi campestri; mi siedo sulla porpora, mi distendo sull’erba, e il mio gelido dito si posa sul capo dei signori, sulla testa del plebeo.
XII
Spesso, sentendo gli scoppi di risa dei bambini, vedendoli adornarsi di fiori, li ho portati via tra le mie braccia; ho ornato il mio capo con le loro ghirlande e ho riso come loro. Ma in questo suono sordo e sepolcrale che usciva dal mio scarno petto si riconosceva la voce d’un fantasma.
XIII
Eppure no! Questo fantasma era la più vera di tutte le verità della terra.
XIV
E tutto si infrange al suo cospetto, tutto, anche il figlio di Dio in persona.
XV
Dimmi infatti se esiste un’onda dell’Oceano, una parola d’odio o d’amore, un soffio d’aria, un volo nei cieli, un sorriso sulle labbra che non conosca fine.
XVI
Tutto l’avvenire, ti dico, cadrà dinnanzi alla mia falce affilata, e il mondo stesso.
XVII
In passato, ai tempi dei Caligola e dei Nerone, strepitavo nell’arena, offrivo il mio aiuto a Messalina per i suoi osceni supplizi, massacravo i cristiani, e ruggivo nel Colosseo con le tigri e i leoni.
XVIII
In Francia, al tempo dei re, prendevo parte ai loro consigli; a quell’epoca ero, per esempio, la notte di San Bartolomeo.
XIX
Nulla è sfuggito alle mie grinfie, nemmeno il secolo di Voltaire che s’innalzava imponente e grandioso, il portamento fiero e lo sguardo arrogante, tutto traboccante di filosofia, corruzione ed enfasi; gli ho spedito contro il ’93.
XX
Non ha trovato scampo nemmeno il secolo del grand’uomo[1] che con la sua parvenza di bigottismo e le sue azioni da filantropo è una vecchia cortigiana che fa ammenda delle proprie colpe e inizia una nuova vita.
XXI
Ebbene a lui, così contento delle sue colonie d’Africa, delle ferrovie, delle macchine a vapore, a lui ho inviato un flagello, una peste. Una peste che scoppia come una bomba nel bel mezzo d’un banchetto pieno di profumi e di donne, che vi ruba gli uomini, i bambini, e subito li soffoca, il colera![2] – l’orrendo colera che con le sue unghie nere, il suo colorito verde, i suoi denti gialli, le sue membra scosse dalle convulsioni, trascina l’uomo alla tomba più rapidamente di quanto una freccia attraversi l’aria, di quanto un fulmine fenda i cieli.
XXII
Bisogna ammettere che le sanguisughe del dottor Broussais, il vaccino, la pasta di Regnault il primogenito, il rimedio infallibile per le malattie segrete[3], i cappotti inglesi[4] mi hanno un poco disorientata. Allora ho chiamato a raccolta le mie forze e ho dato vita alla Camera dei Pari, alla Mascara[5], all’attentato del ’28 e alla legge Fieschi.
XXIII
Amo la voce di una vecchia che prega accanto a un morto.
XXIV
Amo il rintocco roco e stridente delle campane.
XXV
Amo sentir vibrare il suo martello allo scoccare della mezzanotte, allorché i topi si recano al sabba con sibili strani e acuti.
XXVI
Fremo di voluttà stendendomi a mio agio in un bel carro da parata. Quando gli uomini danno fondo alla loro vanità, è uno spettacolo curioso. Avanti cane! Rendi onore al cane che imputridisce sul ciglio della strada! Coraggio, società! Rendi dunque onore al ricco che passa in un carro funebre! I cavalli, tutti coperti d’argento, fanno scintillare la strada; i baldacchini, rilucenti d’oro e di gemme, sono magnifici. Si tengono discorsi sulle virtù del defunto; era senza dubbio liberale, e munifico; i poveri ricevono due soldi, del pane e un cero; dispensava splendidamente il suo denaro. Avanti, cane! Fai il panegirico del cane che i corvi divorano; di’ che mangiava con ingordigia il pezzo di cavallo che gli veniva gettato ogni sera.
XXVII
Mi diletto anche nell’esporre minutamente le sofferenze che patiscono coloro che stringo tra le mie braccia. Ora mi riconosci, dunque? Ho una testa di scheletro, le mani di ferro, e in queste mani una falce.
Mi chiamano la Morte.
Il sudario che avvolgeva le sue ossa si lacerò e lasciò intravedere chiaramente le viscere mezzo imputridite che un serpente stava succhiando.
Nella notte tra l’1 e il 2 giugno 1836. Scritto in meno di mezz’ora.
Gve Flaubert [l’autore si firma così nel manoscritto originale]
***
Fantasmi…
Se ci si chiedesse il motivo di questo testo... «Per sopportare la vita, bisogna stordirsi di letteratura come in un’orgia perpetua», affermava sempre Flaubert.
Chissà, magari questo scritto sarà di ispirazione per qualche studente vissuto non «in pieno colera» ma in piena epoca covid. Che può essere esorcizzata e sdrammatizzata, e combattuta, come tutti i fantasmi che si rispettino, anche con ironia e talento. E coraggio. Provateci ragazzi! Alcuni di voi oggi lo hanno fatto a Milano al Liceo Classico Beccaria, manifestando contro il governo che da mesi non vi sta considerando. Vestiti da fantasmi, appunto.
Il maestro di Rouen avrebbe approvato. Noi anche.
[1] Il «grand’uomo”, da ciò che Flaubert scrive nel paragrafo successivo relativamente alle ferrovie e alla colonizzazione, è senza dubbio Luigi Filippo.
[2] Nel 1832 ci fu un’epidemia di colera che in Francia fece circa 85000 morti.
[3] Le malattie veneree.
[4] Con questa espressione, soppressa nella prima edizione Conard, si indicava una sorta di profilattico per proteggersi dalla sifilide.
[5] Con Mascara Flaubert intende un episodio avvenuto a Mascara in Algeria il 28 giugno 1835, in cui Abd el-Kader aveva soppresso l’armata francese e ucciso più di trecento uomini.