Cultura24 aprile 2021 14:10

Vuoto di senso

Una testimonianza di Carlo Rovello

Carlo Rovello

Carlo Rovello

Tempo fa, nel corso di un nostro scambio di messaggi, Carlo Rovello, poeta savonese, mi raccontava che lo scorso anno lui e suo padre si sono ammalati di covid. 

Mi parlava della paura e della speranza, dell’attesa e della disperazione, e di un piccolo prato di fronte a casa sua, a cui non aveva mai fatto caso, che nei giorni terribili della malattia e poi della convalescenza aveva acquistato un ruolo e un senso nuovo, prezioso e salvifico. 

Il racconto della sua esperienza e le riflessioni che ne erano conseguite mi avevano molto colpito e gli avevo chiesto se avesse voglia di scrivere ciò che mi stava dicendo. 

Lo ha fatto ora, legando ciò che ha vissuto, il 25 aprile (collettivo e individuale, perché dallo scorso anno per lui è un giorno ancora più speciale), le riaperture del 26 aprile e la natura, da sempre la sua fonte di ispirazione.

Leggendo alcuni passaggi mi risuonava in mente la splendida Gli uccelli di Franco Battiato.

Volano gli uccelli volano

Nello spazio tra le nuvole

Con le regole assegnate

A questa parte di universo

Al nostro sistema solare

Condivido con i lettori questo testo denso e poetico, filosofico, autobiografico, e ringrazio l’autore per aver acconsentito alla pubblicazione.

Buona Festa della Liberazione a tutti. 

In questo momento così difficile, il 25 aprile per me ha più che mai il significato di resistere e di impegnarci, tutti insieme, a una ricostruzione individuale e sociale indispensabile se vogliamo, quando l’emergenza sarà realmente passata, imparare i codici di geometria esistenziale, per citare sempre Battiato, che ci permetteranno, speriamo, di non sprofondare nel «baratro di un terribile vuoto di senso», come scrive Carlo, e ricominciare invece a costruire. 

Forse, anche a volare.

 

Chiara Pasetti

 

Ventisei aprile

In questi giorni mi capita sovente di fermarmi a guardare. Stare qualche ora ad osservare il paesaggio, senza un vero fuoco, senza l’ansia di cogliere qualcosa di preciso. Sicché, mi capita di vedere. Mi coglie perfino la ventura di riuscire a pensare. Pensare non è mica rimuginare o risolvere problemi, pensare è essere.

Durante le mie osservazioni, nel relativo silenzio dato dal confinamento, scorgo sempre più frequentemente gli uccelli, ne distinguo il canto, la traiettoria del volo. Dunque mi sono imbattuto nello “Spirito Santo”, vale a dire il volo del gheppio, quando si porta in stallo nell’aria e perlustra ogni centimetro del terreno per scovare le sue prede. Le femmine di gheppio sono bruno-rossastre con bellissime striature nere all’estremità alare; la coda, aperta per favorire lo stallo, sembra un magnifico ventaglio, o il copricapo di un nativo americano. E che dire dell’upupa? Sta ferma tra i ciuffi d’erba e la scopro per la caratteristica testa a martello; quando mi avvicino si alza per raggiungere il ramo di un albero e mi mostra il meraviglioso motivo delle sue ali dispiegate. Ho perfino sorpreso l’allocco, nel suo nascondiglio diurno: il suo volo è silenzioso, non emette il classico “flap-flap” e perciò riesce a spostarsi in incognito. Vogliamo parlare del merlo, della ghiandaia, del picchio verde o delle cinciallegre? Ma no, non è un trattato di ornitologia, neanche una favola di Fedro. Ho solo l’impressione che da questo rallentamento sia scaturito un mondo sopito, regolato da altre leggi e da altre voci che tentano di comunicare con una interiorità rimossa.

Forse sto diventando un contemplativo, forse. Ma, dopo le contemplazioni, non mi manca di dare un’occhiata al cellulare (croce e delizia) o al Tg; così, mi è giunta inevitabilmente la notizia che dal 26 aprile cominceranno le graduali riaperture. Certo che dobbiamo riaprire, perbacco se dobbiamo riaprire! Avrei dovuto saltare di gioia, non è stato proprio così e non me ne vogliano i ristoratori, benché io sia una buona forchetta. A dire il vero, appresa la novità, sono tornato alle traiettorie ardite del mio pensiero e dei miei volatili. Non so perché, ma mi è tornata alla mente un’immagine dell’aeroporto di Genova, la prima volta che lo vidi: non era il rumore degli aeroplani  a destare la mia attenzione, ma le poderose e intermittenti detonazioni, causate allo scopo di allontanare i gabbiani dai motori. 

Un giorno lessi un rapporto dell’ENAC (Ente Nazionale Aviazione Civile) che recitava all’incirca così: “Per wildlife strike si intende generalmente l’impatto violento tra un aeromobile e uno o più animali selvatici, prevalentemente uccelli (birdstrike), con conseguenze più o meno rilevanti […] L’energia che si sviluppa nell’impatto è infatti direttamente proporzionale alla massa e al quadrato della velocità, per cui anche l’impatto con un piccione in atterraggio, o l’aspirazione di una lepre nel motore durante la corsa di decollo, producono lo stesso effetto di un proiettile”. 

Ad uno come me, che prova terrore per il volo, l’immagine di una lepre aspirata da un motore crea uno strano e ulteriore disagio, sia per la povera lepre sia per qualcosa di più generale e indefinito.

Ad un passo dalla famosa luce in fondo al tunnel, 412 giorni dopo quel 9 marzo 2020, assodato che non è andato tutto bene e non siamo migliori di prima, io mi sento sul baratro di un terribile vuoto di senso.

Mio padre si è ammalato di Covid il 16 marzo del 2020, io circa 10 giorni dopo, proprio nel momento in cui, improvvisamente, le sue condizioni si stavano aggravando. Prima che l’ambulanza lo portasse in ospedale, gli avevo affidato una corona del rosario, come gesto simbolico, di ultima istanza, poiché non sapevo se lo avrei mai rivisto. 

Mi ero domiciliato in quarantena presso mia madre, onde non lasciarla sola, ma non potevo immaginare di aver contratto anch’io il virus. La situazione si fece drammatica: dovevo badare con la massima attenzione a non contagiare mia madre e mio padre, purtroppo, era finito sotto il casco con un quadro clinico severo. Dopo una videochiamata attraverso il tablet del reparto infettivi, non riuscimmo più a contattarlo per otto giorni, data la gravità delle sue condizioni.

Eravamo disperati, c’era ormai solo un filo sottile tra di noi: quei tre minuti scarsi di contatto telefonico con i medici che lo assistevano costantemente. Saturazione, emogasanalisi, cateterismo arterioso, cpap, maschera Venturi, cortisone, ecc. ecc. Ma queste cose sono ormai tristemente note a tutti.

Non rivelai a papà il mio stato di salute, cercai di resistere per lui e per mia madre. Nessuna terapia e solo qualche telefonata sconclusionata con l’azienda sanitaria locale. Faticavo anche a rispondere alle chiamate degli amici e dei parenti. Una notte mi svegliai tremante, con brividi inarrestabili, il petto madido di sudore e la febbre che superava i quaranta. Ingoiai una tachipirina e strinsi i denti, la testiera del letto era scossa dai miei tremori: fui davvero fortunato a superare quella crisi.

Poi, dopo Pasqua, il dolce epilogo. Le condizioni di mio padre erano migliorate, tanto che il giorno della Liberazione, dopo 34 giorni di degenza, ritornò a casa. 

Pesava 12 kg in meno, ma aveva ancora con sé la corona del rosario.  

Quel 25 aprile fu particolare eppure, nonostante papà fosse salvo, avvertivamo una mancanza… 

“Oggi non chiamano”, disse mia madre. Era il mio identico pensiero. 

Dopo circa mezz’ora squillò il telefono: “Signora è l’ospedale, sentiva la nostra mancanza? Suo marito ha lottato, è stata veramente dura, ma ce l’ha fatta, siamo contenti!”. Lì, capimmo che tutto aveva avuto un senso, che tra noi e quei camici c’era stato un legame più intenso e autentico di quanto potessimo credere.

Come ho sopportato tutto questo? Ho pregato a lungo, ma poi, quando le mie condizioni lo hanno permesso, ho iniziato a visitare il giardino condominiale, un paio d’ore al giorno. Ero spossato e tentavo di fare un po’ di ginnastica, nell’attesa di ricevere novità dall’ospedale. Ogni giorno osservavo il prato. L’erba timidamente cresceva, le fioriture si susseguivano ed ero circondato da api e da una moltitudine di insetti volanti, di cui non so dire la specie, e altri animaletti ancora si muovevano tra le pieghe dell’erba. Alcune volte lo scenario era ravvivato dalla rugiada, dalle raffiche del vento o dalla pioggia primaverile.  

Non avevo mai vissuto così intensamente un prato e la ricchezza dei suoi micro-eventi. Posso dirvi, onestamente, che pur nella loro drammaticità, quei giorni non li potrò mai dimenticare e li rievoco con affetto, ogni volta che dalla finestra rivolgo lo sguardo al cortile, verso quel praticello.

Perché, allora, vogliamo soltanto tornare a godere? A godere a qualunque costo? A godere con il cuore vuoto?

Lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, in un formidabile saggio intitolato “Cosa resta del padre?”, analizzando la difficoltà di ereditare il desiderio, ha introdotto in modo efficacissimo il discorso del capitalista, quel discorso che eradica ogni ideale. 

La credenza che anima il discorso del capitalista è doppia: è credenza che il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento […] ma è anche credenza che l’oggetto che causa il desiderio […] possa confondersi con una semplice presenza, con una Cosa, con una montagna di cose…

In altre parole, abbandonata ogni spiritualità, ogni identità, ogni fede e appartenenza, non resta che rimuovere una realtà non desiderabile, sostituendola con una illusoria, fondata sulla vacuità, sul godimento senza limiti, sul godimento mortale.

Dunque, se è tutto un complotto, se i politici sono dei ciambellani del nulla, se ci hanno rubato un anno di vita (chi poi? E perché?), se tutto è meno grave di come ci hanno fatto credere (chi? E perché?) come è pensabile fare un sacrificio? A che scopo? Come è possibile avere rispetto per il prossimo? La mancanza di senso ci travolge ed apre alla irresponsabilità, all’egoismo più puro, a dissonanze cognitive che tendono a giustificare l’assenza di morale individuale.

Qualcuno, sciaguratamente, ha paragonato la riapertura ad una seconda liberazione. Io credo che se oggi tornassero gli occupanti tedeschi, consegneremmo loro le chiavi di ogni città, baratteremmo il Colosseo per una dose di Pfizer, per una serata di movida, per una vacanza in Spagna. Chi salirebbe sui monti? 

Dunque, il 26 aprile, accogliamo di buon grado le riaperture, ben vengano un bicchiere con gli amici, una serata a teatro, un po’ di calore fraterno, ma il mio consiglio è di godervi anche questi ultimi silenzi, queste strade meno trafficate, questi tramonti. Qui non si tratta di fare del romanticismo, qui si tratta di ripristinare il significato profondo di quanto ci tocca di fronteggiare, per non esserne travolti ma potercene servire.

Rammentate che i migliori sono quelli che hanno saputo essere virtuosi nella difficoltà e per questo hanno consentito al prossimo la speranza di un avvenire, di un mondo possibile e migliore.

Lasciate che i furbetti delle vacanze prenotino il loro volo, voi seguite quello degli uccelli mattutini sui campi assolati, sui prati di quartiere.

 

Carlo Rovello

***

 

Carlo Rovello è nato a Savona nel 1976. Vive sull’Appennino Ligure dove si diletta nell’allevare animali. Frequenta la poesia fin da adolescente e si cimenta anche con la saggistica.
Nel 2008, con Giovanni Straniero, ha pubblicato Cantacronache, i 50 anni della canzone ribelle, edito da Zona.
Per la collana Insedicesimo di Delfino & Enrile editore, sono usciti I giorni dell’alpaca (2016) e L’enorme haiku (2018).
La raccolta di poesie, intitolata Le canzoni dell’oblio, è stata stampata dall’editore CTL di Livorno per la Libeccio edizioni, nel 2020. A breve uscirà la sua nuova raccolta di liriche: La stagione nuova.

https://www.carlorovello.it/

 

 

 

Chiara Pasetti

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