Cultura27 giugno 2021 12:21

Ho scritto

A un certo punto, non saprei dire quando esattamente, ho visto arrivare dall’alto questo cappuccio di ferro, che si è appoggiato sulla mia testa e ha spento tutto (di Chiara Pasetti)

Ho scritto

Stanotte ho sognato che scrivevo la mia rubrica su La Nuova Savona.

Sì, la rubrica che ho curato da aprile 2020 fino a due mesi fa, quando ho comunicato ai lettori che avrei preso una pausa. Ma non scrivevo di “dad”, nel sogno, di covid, di studenti, o di anniversari di scrittori e poeti, e non scrivevo neppure storie di donne, insomma degli argomenti di cui mi sono sempre occupata qui.

Scrivevo di me.

Di come mi sono sentita in questi ultimi mesi, del perché a un certo punto non sono più riuscita a produrre un articolo, una recensione, un pezzo per questa testata, così come per altre.

L’immagine che mi veniva in mente più spesso in quel momento di totale incapacità di tirare fuori una riga era quella di un cappuccio nero di ferro, del genere di quelli che vengono messi sopra una candela che brucia tremolante ma forte, alta. Come si faceva un tempo quando si dovevano spegnere i candelabri. Posando quel cappuccio sulla fiamma viene a mancare l’ossigeno, e la fiamma si spegne.

È un’immagine che mi tormenta, ha qualcosa di mortifero, è come se quel cappuccio di ferro fosse uno strumento che uccide qualcosa che vive, riscalda, illumina.

Spesso questa visione ritorna e mi fa paura, perché non capisco se è un pensiero o un’allucinazione. Tra l’altro Flaubert parla spesso di fiaccole nei suoi testi e credo sia un condizionamento, il mio. In ogni caso restituisce abbastanza bene ciò che ho vissuto.

A un certo punto, non saprei dire quando esattamente, ho visto arrivare dall’alto questo cappuccio di ferro, che si è appoggiato sulla mia testa e ha spento tutto.

Ideazione, creatività, fantasia, volontà. E più mi accanivo nel cercare di togliere, alzare, spostare quello strano oggetto nero, medievale, cupo dalla mente, più lui stringeva, soffocava, spegneva.

Allora mi sdraiavo sul letto, respiravo profondamente nel tentativo di calmarmi, perché ogni volta che compariva l’immagine il respiro si faceva affannoso, e mi sforzavo di visualizzarlo, lo strumento che spegneva la candela, di farlo diventare familiare nella speranza di controllarlo. Immaginavo una mano dall’alto, non so di chi, era una sorta di un burattinaio invisibile, che lo sollevava e lo buttava via, lontano da me. Cadeva a terra con un suono metallico e rimbalzava, lo vedevo capovolto, concavo, nero, consumato, come se avesse spento milioni di candele prima di spegnere la mia. Prima di spegnere me. 

Non ero sola, in questa scena figurata che voleva essere rilassante e invece diventava sempre più angosciante, c’erano altre teste e altrettanti “spegni candela”, non so quale sia il nome dell’oggetto ma l’ho sempre chiamato così dentro di me; teste bionde, brune, bianche, pelate. L’oggetto nero si appoggiava delicatamente e con estrema precisione su ognuna di esse, coprendole fino all’inizio collo. Di nessuna vedevo i volti, gli occhi, o il resto del corpo, solo le teste da dietro, come una fila di manichini di quelli che si vedono nei negozi di parrucche.

Era forse il mio modo disperato di credere di non essere l’unica a vivere quell’esperienza di “incappucciamento”, che non aveva nulla di cruento a dire il vero ma era per me spaventosa.

L’esperimento di allontanamento dello “spegni fiamma” o “spegni candela” però non funzionava, la mia testa restava coperta, imbrigliata, la fiamma non riluceva più, le idee non ribollivano più. Tutto era diventato buio.

Mi alzavo spossata, con un profondo senso di pesantezza e di tristezza. Ci ho provato spesso, a visualizzare la scena e a togliermi quell’orrendo coso dalla mente, ma ogni volta arrivavano le altre teste, sembrava un quadro di Magritte o di Dalì, e la mia restava gravata da quel coperchio nero. Certo c’erano anche Baudelaire e la sua Spleen, dentro la visione, e forse Kubrick e Bӧcklin, Dürer e Maupassant, e altro. Ma queste suggestioni le realizzo ora, nel momento in cui lottavo con la calotta di ferro non pensavo certo ai quadri o ai poeti…

In quei giorni atroci mi aggiravo tra la cucina, lo studio e la camera da letto, con un gran mal di testa e con la sensazione di avere, realmente, un cappello di ferro sul cranio. Sotto c’era ancora qualcosa o era tutto morto? Non lo sapevo, perché mancando l’ossigeno era impedita qualsiasi forma di vita, di movimento psichico e talvolta anche fisico.

Provavo a sedermi al pc, o a prendere in mano il mio taccuino o un notes qualunque. “Adesso scrivo”, mi dicevo. Fissavo la pagina word o il foglio bianco e la sola cosa che riuscivo a pensare, e che non scrivevo, era: non esce nulla. Tutto è spento.
Non era la prima volta che mi succedeva e avrei dovuto padroneggiare meglio le mie emozioni e le mie paure, proprio perché mi era già capitato. Invece ero terrorizzata all’idea che ormai la mia mente fosse un giardino di alberi e fiori secchi, morti. Ma soprattutto il cui terreno non era più fertile. Non scriverò mai più, pensavo. Non mi verrà più voglia di fare nulla.

È così che succede, quando si sta male. Ognuno vive questa condizione in modo del tutto soggettivo, non credo che in molti vedano gli strumenti spegni fiamma che giungono dall’alto come farfalle nere e si posano sul capo fino ad avvolgerlo tutto, ma in quasi tutti coloro che vivono un periodo di crisi c’è un rallentamento, che sovente arriva al blocco totale, del pensiero e dell’azione.

Qualche giorno fa, potrebbe essere un mese come una settimana, non so dirlo, mi sono svegliata e ho trovato per terra una campana di ferro che era su una mensola. È un oggetto che ho comprato in un mercatino dell’antiquariato anni fa, credo l’abbia fatta cadere il gatto nella notte. O un fantasma.

L’ho fissata a lungo. Anche se è molto più piccola dello spegni candela, della calotta nera della mia visione, le assomiglia molto. Giaceva a terra, rovesciata, immobile, innocua, grigia più che nera.

L’ho rimessa al suo posto, ma capovolta. Non come un cappuccio bensì come l’avevo trovata, rovesciata all’insù, libera di lasciar scorrere l’aria al suo interno.
Mi sono seduta al computer, la testa era stranamente leggera.
E per la prima volta dopo un po’ di tempo, ho scritto.

Il sognatore di fiamma unisce ciò che vede e ciò che ha visto. Conosce la fusione dell’immaginazione e dalla memoria. […] Nella sua rêverie di una sera, sognando davanti alla sua candela, il sognatore sogna a ciò che avrebbe potuto essere. Sogna, in rivolta contro se stesso, a ciò che avrebbe dovuto essere, a ciò che avrebbe dovuto fare. Nelle oscillazioni della fiamma, questa rivolta contro di sé si quieta. Il sognatore è restituito alla malinconia della rêverie, una malinconia che fonde i ricordi effettivi e i ricordi della rêverie. […]

Si apre allora a tutte le avventure della rêverie; accetta l’aiuto dei grandi sognatori, entra nel mondo dei poeti. (Gaston Bachelard)

Chiara Pasetti

Ti potrebbero interessare anche: