Cultura17 gennaio 2021 14:50

Il Manifesto dei volenterosi

Il «J’accuse» di Zola e la scuola (di Chiara Pasetti)

Il Manifesto dei volenterosi

Dovrei forse continuare a scrivere di scuola, oggi, dato che è di venerdì scorso la notizia che nella mia regione domani gli studenti delle scuole superiori potranno rientrare in classe al 50% a giorni alterni, mentre alcune regioni hanno già ripreso le lezioni in presenza, sempre con l’alternanza scuola-dad.

Nell’ultima settimana ho letto e mi sono stati invitati non so quanti articoli e post su questo tema, su cui personalmente mi dibatto (e scrivo) dall’inizio della pandemia, e anche prima…

Proprio per questo, dunque, non scriverò (ancora) di scuola. È stato detto tutto e il contrario di tutto.

Mi dispiace solo che l’argomento, di cui comunque sono felice che si parli, venga trattato tardi, troppo tardi. E che stia diventando, anche questo, un pretesto per litigare o per ricevere dei like, per ottenere visibilità sposando la tesi della riapertura a oltranza (mi pare ovvio che nessuno voglia la dad, è una soluzione estrema data dall’emergenza, è il caso di sottolineare che la scuola non è la dad?...) o per sostenere invece che sia meglio restare a casa e proseguire con le lezioni a distanza fino alla fine della pandemia.

Bisognava parlarne mesi fa, prima della fine dell’anno scolastico precedente, e chiedere a gran voce delle risposte l’estate scorsa, chiedere a che punto fosse la situazione dei trasporti e molto altro, così come ora bisognerebbe riflettere sui prossimi mesi, dato che l’emergenza non scomparirà magicamente in primavera e come ho già scritto altre volte questa poteva, forse potrebbe ancora essere, un’occasione per provare a migliorare le tante cose che da anni, non certo da marzo, nella scuola non funzionano.

Ognuno, in questo ginepraio-commedia di decreti, smentite, scontri tra Governo e Regioni e tra genitori, studenti, docenti, dirigenti, dice la sua, a volte solo per un insano piacere di esternare il proprio pensiero. Insano, sì, perché la scuola sono i docenti, gli operatori scolastici e naturalmente gli studenti.

Perché, se non ci si permette di parlare del lavoro di un avvocato, di un panettiere, di un impiegato, di un attore o di un medico se non lo si svolge e non si conoscono realmente le dinamiche che lo caratterizzano, sul discorso scuola chiunque si sente in diritto di dire la propria opinione, quando non si è più entrati in un’aula scolastica dal tempo in cui si era studenti e se non si è vissuta sulla propria pelle (e sul proprio pc) la fatica degli ultimi mesi tra dad, verifiche, esame di maturità senza scritti, provvedimenti emanati da un giorno per l’altro, lezioni di 6-8 ore a schermo, rientro in classe con cartelli, distanziamenti, mascherine, metà classe sui banchi e l’altra collegata (male, spesso) a casa? Non lo so.

Nel mio piccolo, insieme a un gruppo di genitori rappresentanti di classe del liceo frequentato dai nostri figli, questa settimana (difficile e snervante) ho organizzato una riunione a distanza nella quale abbiamo trattato diversi aspetti tra cui quello che da mesi mi sta a cuore, la dad.

Non intendo certo tediare i lettori con il verbale (lunghissimo, e criticatissimo anche per questo!) della riunione.

C’è un aspetto, tuttavia, che mi fornisce lo spunto per ricordare una vicenda del passato, che mi piacerebbe fosse conosciuta dai ragazzi perché li aiuterebbe a comprendere meglio il presente (a scuola se ne parla pochissimo, quando se ne parla…).

Si tratta del «Caso Dreyfus», che sconvolse la Francia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Iniziò nel 1894 con la condanna di Alfred Dreyfus, allora brillante ufficiale dello stato maggiore dell’esercito, accusato ingiustamente di altro tradimento per aver fornito, in una lettera anonima indirizzata al delegato militare dell’ambasciata tedesca, Maximilien von Shwartzkoppen, importanti informazioni riservate sull’esercito francese; proseguì con la degradazione militare nel cortile maggiore dell’École militaire, cui seguirono la detenzione e il trasferimento, nell’aprile del 1895, presso l’isola del Diavolo, nella Guiana francese (dove rimarrà per quasi cinque anni lontano dalla famiglia, ignaro degli sviluppi del suo caso, senza alcun conforto tranne le lettere dell’amata moglie Lucie). Successivamente vi fu l’accettazione della domanda di revisione e il processo di Rennes del 1899, la grazia e infine, nel 1906, la riabilitazione.

Un caso tanto entusiasmante quanto frustrante, perché sembra davvero di essere di fronte a un evento che solo in minima parte aveva a che fare con una questione giudiziaria.

Ricostruendo il clima politico francese nell’ultimo scorcio del XIX secolo emerge fin dall’inizio che la colpevolezza dell’innocente Dreyfus fosse da attribuire al pregiudizio antisemita (egli era ebreo, d’origine alsaziana), e in secondo luogo all’«insipienza dei servizi investigativi», nonché ai «bassi interessi politici del ministro della guerra, il generale Mercier».

L’opinione pubblica era quasi interamente convinta della colpevolezza di Dreyfus, contro il quale si scagliano violentemente La Croix, giornale cattolico tuttora esistente, Le Petit Journal, di stampo nazionalista, allora il quotidiano che vantava la più ampia tiratura, L’Intransigéant, che aveva nell’antisemitismo sociale uno dei suoi argomenti forti, e ancora La Libre Parole e Le Journal, che con l’articolo di Maurice Barrès descrive la cerimonia della degradazione militare di Dreyfus intitolando il suo articolo «La parata di Giuda»….

Fortunatamente alcuni uomini, inizialmente in modo isolato, si mossero in silenzio per riparare l’ingiustizia: Mathieu Dreyfus, fratello del condannato, che non smetterà un solo istante di ricercare prove contro il vero colpevole (il comandante di fanteria Esterhazy), Bernarde Lazare, giornalista anarchico ebreo, Georges Picquart, l’ufficiale antisemita che all’improvviso, e casualmente, scopre il colpevole, e Auguste Sheurer-Kestner, anziano vice presidente del Senato, protestante.

La verità procede lentamente, gli inghippi si moltiplicano, e la campagna della stampa antidreyfusarda si fa sempre più violenta.

È allora, tra la fine del 1897 e gli inizi del 1898, che scende in campo Zola, il cui ruolo nell’affaire è stato tanto rilevante da far sì che a un certo punto si parlasse di «caso Zola» o di «Izolâtres», neologismo calembour coniato dalla scrittrice Gyp (nazionalista e antisemita, ça va sans dire) per denunciare l’impegno a fianco dello scrittore come un fenomeno di idolatria per Zola.

Il grande impegno del padre del naturalismo nel caso Dreyfus culmina con il celeberrimo «J’accuse» del 13 gennaio 1898 pubblicato su L’Aurore.

Uno dei più grandi «momenti della coscienza umana», che testimonia il coraggio, la rettitudine e l’integrità morale dello scrittore, il quale dopo essere stato messo a conoscenza dei fatti dal Senatore Sheurer-Kestner, con la sua lettera al presidente della Repubblica Félix Faure si espose consapevolmente al crimine di diffamazione a mezzo stampa, che lo portò all’esilio in Inghilterra per undici mesi.

 Soprattutto, dopo il suo «J’Accuse» nacque una nuova figura di intellettuale engagé. Consapevole del potere della parola, e della parola letteraria, che «sconvolge il mondo, affretta i secoli, fa maturare l’umanità», fortemente ostile al potere della spada, che è «solo l’arma dei muscoli, mentre la penna è l’arma dell’intelligenza e fa opera di verità», Zola opera singolarmente con un gesto che scuoterà le coscienze di tutti i cittadini, non solo francesi.

Dal mondo della cultura, dopo il suo «J’accuse», partirà un’iniziativa non più isolata, che si configura come un impegno collettivo: Una Protesta, passata alla storia come Manifesto degli intellettuali, pubblicata all’indomani della lettera di Zola sempre su L’Aurore, i cui primi firmatari saranno Zola, Anatole France e Duclaux, ai quali si aggiungeranno le firme di scrittori (tra i quali il giovane Proust), artisti, professori universitari (sia di facoltà umanistiche che scientifiche, a testimonianza dell’alleanza tra le lettere e la scienza, entrambe al servizio di una battaglia per la verità e la giustizia), avvocati, architetti, studenti. Tutti fortemente convinti della necessità e dell’urgenza del loro impegno etico, uniti nella salvaguardia dei diritti dell’uomo e del cittadino nel Paese che li ha visti sorgere. Tutti «colpiti dalle irregolarità commesse nel processo Dreyfus». Tutti profondamente convinti della sua innocenza. A questi spiriti liberi e «disinteressati», figli dell’illuminismo, che hanno rischiato e si sono messi in gioco per ottenere la revisione del processo a Dreyfus del 1894, non solo la vittima dell’ingiustizia Alfred Dreyfus ma tutti noi dobbiamo molto, in un momento come quello attuale di degrado culturale e morale.

Zola morirà improvvisamente nel 1902 per le esalazioni di una stufa misteriosamente otturata (…) senza poter conoscere gli sviluppi del caso al quale aveva partecipato con grande passione e orgoglio.

E a questo punto mi ricollego alla scuola, per concludere. Nel verbale della riunione con alcune classi, alla fine si legge:

“Siamo inoltre convinti che in una situazione di emergenza ogni parere, proposta e competenza che possa essere di supporto agli studenti e ai docenti sia prezioso.

Si spera pertanto che da ora in poi il gruppo dei rappresentanti serva anche per creare una vera rete scuola-famiglie per far fronte alla difficile situazione in corso e a tal fine riteniamo utile che chi lo desidera fornisca alla scuola il proprio nominativo e recapito, unitamente alla propria professione, specificando per quale motivo si rende a disposizione della scuola”.

Senza la pretesa di scrivere un manifesto degli intellettuali à la Zola, anche perché sono sicura che non siano soltanto loro (esistono ancora, tra l’altro, gli intellettuali?...) ad avere proposte e idee degne di nota bensì chiunque di noi, mi piace pensare, sognare che l’idea che ogni adulto e anche ogni studente volenteroso e convinto di poter dare il proprio apporto e supporto sia ascolta, considerata e presa in considerazione, e diventi una sorta di impegno condiviso e diffuso. Da tutti.

Non so se accadrà.

Sicuramente sarebbe più utile di mille post e articoli pro/contro riaperture e chiusure, dad/presenza, ecc., per fare qualcosa in un momento in cui dovremmo smetterla, tutti e io per prima, di perdere tempo a litigare e/o a parlarci addosso. E, finalmente, agire. Proprio come fece Zola con il suo «J’Accuse» del 13 gennaio 1898.

Se è vero che è «beato un mondo che non ha bisogno di eroi» è altrettanto vero che è «fortunato il mondo che ha bisogno di uomini», e di uomini come quelli che firmarono la Protesta, il Manifesto degli intellettuali, due secoli fa. E come tutti gli uomini che con passione e impegno portano avanti «la ricerca del vero e del giusto».

Uomini che «volgono al mito senza cessare di essere uomini, e molto uomini» (Gustave Flaubert).

Direi di chiamare questa idea “il manifesto dei volenterosi”. O degli utopisti?!

Male che vada, ci disegneranno come i maiali della gentile caricatura dedicata a Zola e ai suoi “seguaci”…

Che dite, proviamo?

 

 

 

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https://www.lanuovasavona.it/2021/01/09/leggi-notizia/argomenti/cultura-3/articolo/a-me-serve-come-a-te-laria-e-la-liberta.html

 

Per approfondire il caso Dreyfus:

Agnese Silvestri, Il Caso Dreyfus e la nascita dell’intellettuale moderno, FrancoAngeli, pagg. 416, euro 37.

In uno dei corti, il più lungo, del video progetto condotto con gli studenti e l’adesione di Achille Lauro, dedicato al binomio giornalismo-democrazia, avevamo inserito un frammento dello splendido film “J’accuse” di Polański, sull’affaire Dreyfus:

https://youtu.be/9vSBGljw__I

Chiara Pasetti

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