Cultura24 luglio 2021 07:56

L’ultimo giorno al centro estivo

Erano trascorse ormai tre settimane al centro estivo della scuola elementare Leopardi e l’incarico di Luca volgeva al termine (di Chiara Pasetti)

L’ultimo giorno al centro estivo

Era il suo ultimo giorno e fortunatamente non lo avevano più accolto rondini morte, come il primo, ma solo le voci dei bambini, squillanti e allegre.

Lui e Lia se l’erano davvero cavata bene, come aveva promesso alla coordinatrice tatuata dai capelli viola, che nell’arco delle settimane con lui era diventata sempre più acida e fredda.

Forse non le piaceva il fatto che a differenza di tutti gli altri educatori Luca non facesse mai la pausa canonica di un quarto d’ora o che non chiacchierasse troppo con lei, e nemmeno che non ammazzasse il tempo giocando con cellulare.

Ma del resto di tempo libero Luca ne aveva davvero poco, anzi niente, la bimba lo impegnava moltissimo e si era reso conto subito che era sufficiente una minima distrazione per rischiare che schizzasse fuori dal passeggino e si mettesse a correre ovunque, o si arrampicasse sugli alberi del giardino, finendo spesso per cadere.

Lia era praticamente sempre da sorvegliare, si muoveva in modo imprevedibile e a volte picchiava la testa contro qualche mobile. Lui non aveva tempo da perdere a chiacchierare, gli avevano affidato la bambina più “difficile” ed era seriamente intenzionato a fare del suo meglio perché non si facesse male.

Inoltre con i colleghi non aveva molto in comune, c’era un solo maschio che parlava tutto il tempo di computer, argomento per lui noiosissimo, e le femmine di solito discorrevano di vacanze, del colore di capelli da sfoggiare in spiaggia o del tatuaggio nuovo da fare.

Pareva che la moda dei tatuaggi fosse particolarmente sentita tra le educatrici, che ammiravano e commentavano quelli di Melinda ogni giorno. Lui, sinceramente, non era ancora riuscito a decifrare i disegni contorti e troppo colorati che le riempivano i polpacci.

Lia aveva smesso, dopo qualche giorno, di fissare per ore il cielo, e quando era con Luca riuscivano a capirsi e ad abbozzare anche qualche attività o gioco. Diceva pochissime parole, la maggior parte per imitazione, parlando alla seconda persona, come gli altri parlavano a lei: “non toccare, non in bocca, stai attenta, dammi”.

Le piaceva molto contare fino a dieci, e a volte passavano anche un’ora intera a ripetere i numeri indicandoli con le dita. La divertiva molto fare i puzzle sul suo tablet, che la madre non dimenticava mai di metterle nello zainetto quando la salutava.

Luca si domandava se capisse davvero dove posizionare gli oggetti per riempire le figure o se seguisse soltanto suoni e colori che ormai aveva imparato a memoria.

Era felice quando Lia arrivava sveglia, allegra, partecipe, ma erano casi rari. Il più delle volte era semi addormentata, stava ore sul passeggino dormicchiando, emettendo qualche parola incomprensibile e mangiucchiava patatine, che non c’era verso di levarle di mano.

Quando era così non c’era nessuna attività che la interessasse, respingeva la palla, le bolle di sapone, il tablet e qualsiasi gioco e rimaneva annoiata e un po’ inebetita con il volto schiacciato contro la sponda del passeggino fino all’ora in cui la madre veniva a prenderla.

Luca, per non lasciarla lì ferma in silenzio, la portava in giro con il passeggino per tutta la scuola, dentro e fuori, e le parlava o canticchiava, per farle sentire che era sempre lì, dietro di lei.

Voleva farla sentire protetta. Spesso Lia si addormentava beata. Era capitato che si risvegliasse all’improvviso, come scossa da un incubo, e si mettesse a piangere. Quello era il momento più duro, per Luca, perché gli ci voleva anche un’ora per calmarla e convincerla che non stava succedendo nulla di brutto o pericoloso. A volte scalciava, ma lui aveva imparato in fretta schivare i colpi.

Melinda invece, nel tentativo di aiutarlo senza che lui avesse chiesto nulla, un giorno si beccò un calcio in pancia; da quel momento, con stizza, si convinse che il suo supporto non era necessario.

Quel giorno, l’ultimo, era arrivata più addormentata del solito, tanto che Luca sospettò che le gocce che la madre diceva di darle “solo ogni tanto” la notte precedente le fossero state somministrate in abbondanza.

Lo sguardo era vacuo e assente, i riflessi troppo rallentati. Melinda con la sua voce infantile e stridula disse: - Oh, oggi starà buona!

Luca avrebbe voluto strangolarla, ma non disse nulla e iniziò il suo giro in passeggino, sperando che Lia smaltisse in fretta le gocce e avesse voglia di giocare. Lia era sempre “buona”, i bambini sono sempre buoni, non c’è bisogno di sedarli per renderli innocui, pensò Luca… Ma non aveva esperienze precedenti di bambini autistici e si giudicò presuntuoso.

Non era per niente felice di vedere una bambina di sette anni imbottita di farmaci, che non reagiva a nessuno stimolo. E perché poi, ridurla in quel modo? Quando era sveglia non faceva nulla di strano se non ciò che la sua età e la sua condizione le permettevano. Urlava, giocava, rideva, tentava di collaborare e a suo modo imparava.

Lia se ne stava tutta rannicchiata e non diceva nulla. Emetteva però un suono flebile e continuo, una sorta di lamento. Cercò di parlarle: “Che succede oggi Lia, ti fa male qualcosa? Non stai bene?”. Non sperava in una risposta ma almeno in uno sguardo, tuttavia lei non lo guardava.

A Luca venne in mente il primissimo giorno, quando Lia rimase ore a fissare il cielo senza volerne sapere di interagire con lui. La posizionò meglio sul passeggino perché stava scivolando giù e le cinghie le stringevano le spalle.

Mentre la prendeva in braccio per poi rimetterla delicatamente sullo schienale, si accorse che sulla pancia aveva uno strano segno. In un istante le sollevò la maglietta color rosso fragola. Era un vasto ematoma blu violaceo, vicino all’ombelico. Perché la madre non gli aveva detto niente? Cos’era quel livido, una bruciatura, una caduta, cosa?! Lia istintivamente si tirò giù la maglietta per coprirsi, ma Luca la alzò nuovamente per osservare meglio quel segno e ne scorse un altro simile, sotto l’ascella destra.

Rimase così qualche minuto, lui guardava la pancia della bimba occupata da quel livido esteso, lei finalmente guardava lui negli occhi in silenzio. E dopo qualche secondo ricominciò a emettere quel lamento soffocato e si mise a piangere.

Provò a tastare con grande delicatezza i contorni del livido, ma Lia lo allontanò. Cosa fare? Dirlo a Melinda? A cosa sarebbe servito? Spesso Lia si era presentata con dei segni sulle braccia e sulle gambe. D’inverno era sicuramente più difficile vederli perché erano coperti dai vestiti. La madre diceva che muovendosi in fretta e senza attenzione sbatteva sulle porte e sui mobili, e lo diceva con una risata strana, un misto di l’imbarazzo e di fretta di liquidare l’argomento.

Ma quella macchia bluastra era diversa, non poteva essersela fatta da sola cadendo contro un mobile. Era troppo circolare, diffusa, e sulla pancia. Anche quella sotto l'ascella era a forma di cerchio e i contorni erano giallastri, forse era di qualche giorno prima. Il mutismo della bimba lo preoccupava, non era mai stata tanto assente e lontana.

Non ci pensò due volte. Sapeva di andare incontro a dei problemi, non si può portare via una bambina da una scuola senza dirlo a nessuno, ma doveva aiutarla, doveva sapere. Chiamò un pediatra che conosceva bene, un amico, e gli chiese se potesse portagli immediatamente una bambina da visitare. Era in studio, il suo amico, lo aspettava. Non c’era tempo per riflettere. Ormai un dubbio atroce si era instillato nella sua mente e non avrebbe potuto rimanere al centro estivo facendo finta di nulla.

Senza farsi notare da nessuno svoltò nel giardino dove era parcheggiata la sua auto. Sollevò Lia dal passeggino stando attento a non toccarla nelle due zone dove aveva quei vasti ematomi e la adagiò sul sedile, assicurandola subito con le cinture. Lei si lasciò prendere come un bambolotto, ma continuava a emettere quel lamento e a piangere piano.

Piegò il passeggino in fretta e furia e lo ripose nel portabagagli, accese il motore e in un lampo fu fuori dal cortile della scuola.

Stava facendo la cosa giusta? Non lo sapeva. Sapeva solo che doveva capire di che natura fossero quei lividi sulla pancia e sotto l'ascella della bambina. Sapeva solo che voleva proteggerla, a qualunque costo.

Così iniziò l’indagine su Lia e la sua famiglia, che in tanti anni di segni sul suo corpicino nessuno aveva mai richiesto, evidentemente fidandosi delle spiegazioni sommarie della madre che spesso ripeteva, ridendo in modo un po' isterico, che la bimba cadeva sempre e sbatteva contro i mobili…

***

La prima parte di questo racconto:

Chiara Pasetti

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